Dieci anni fa, sull'onda delle suggestioni che riecheggiavano dal primo
Forum Sociale di Porto Alegre, riempimmo le strade di Genova per
contestare i potenti del G8 e denunciare le contraddizioni di una
globalizzazione sbagliata. Le voci di una nuova coscienza civile
irrompevano nella scena pubblica demolendo le certezze del pensiero
unico. Quella che ci ispirava era un'idea semplice e rivoluzionaria: le
grandi questioni del mondo non sono prerogativa esclusiva di stati e
governi ma chiamano in causa il diritto di ogni essere umano a decidere
del proprio futuro. Parlavamo di giustizia sociale, diritti umani,
democrazia, sviluppo sostenibile, pace e cooperazione fra i popoli.
Fummo aggrediti dallo Stato con una repressione brutale, senza
precedenti nella storia repubblicana. Ma il tentativo di criminalizzarci
non riuscì, perché quel movimento seppe evitare la spirale della
violenza e difendere la sua autonomia. E in tutti questi anni ha
continuato a intrecciare relazioni, riunire esperienze e culture
diverse, seminare pensiero critico, diffondersi in mille vertenze e
pratiche sociali. Avevamo visto giusto, perché ciò che allora
paventavamo oggi sta accadendo. Avevamo ragione a sostenere che il mito
liberista della crescita infinita è una follia, che il saccheggio delle
risorse naturali avrebbe prodotto disastri; che l'arbitrio di un mercato
senza regole avrebbe calpestato i diritti umani e impoverito milioni di
persone; che il mondo sarebbe diventato ingovernabile senza una
politica capace di mediare gli interessi in nome del bene comune; che le
guerre non avrebbero portato più democrazia, ma altre ingiustizie e
nuovi conflitti. Oggi tutto ciò è più chiaro agli occhi di tanti, ma
anche questo non basta. Di fronte a una crisi dalla portata epocale, che
è al tempo stesso economica, sociale, ambientale, culturale e
democratica, dobbiamo cercare nuove risposte. Ripensare il rapporto con
la natura, le risorse, il lavoro, i consumi; prendere atto
dell'interdipendenza fra gli esseri umani, fra i contesti locali e la
dimensione planetaria dei problemi; imparare a convivere e condividere;
ripensare l'idea di sviluppo e gli indicatori del benessere
dell'umanità. Ad ogni latitudine il mondo si interroga sulla possibilità
di cambiare strada, e oggi le rivoluzioni della primavera araba ci
dicono che il cambiamento può partire proprio dal sud del mondo. Popoli
rapinati e oppressi da vecchi e nuovi colonialismi mettono a nudo il
fallimento del liberismo e ci indicano la rotta di un'altra storia
possibile: lotta alla povertà, sovranità alimentare, beni comuni,
istruzione, libertà, democrazia. La storia ci insegna che dalle grandi
crisi si può uscire con più diritti o più ingiustizie, con più
democrazia o più autoritarismo, col progresso o l'arretramento di
civiltà. L'esito non è scontato, e non saranno solo i governi e i poteri
economici a scriverlo, ma anche le società che si fanno protagoniste
del cambiamento. Per questo torniamo a Genova, per riprendere insieme a
tanti e diversi soggetti sociali, il filo di una ricerca comune e il
cammino verso un altro mondo possibile.