sabato 23 gennaio 2010

27 gennaio giornata della memoria

FIACCOLATA in ricordo dell' olocausto nazifascista
Ore 19:00 concentramento
PIAZZA UNIVERSITA'
Via Tommaso Cannizzaro, Cavalcavia traghetti, Villaggio Fatima (Campo Rom)
ORE 20:00 Villaggio Fatima Dibattito e testimonianze, proiezione filmati
Olocausto , Shoah , Genocidio , Porajmos , Samudaripen….
Diversi nomi , un unico Male .
Diversi sono i nomi per identificare un unico male partorito dalla follia dell’uomo. Il mondo fa presto a condannare ma fa fatica a ricordare. Ed è per questo che ogni 27 gennaio ci ritroviamo a dover difendere con i denti la memoria , come se non fosse , nel bene e nel male, una nostra dote e facoltà: quella di ricordare.Quasi 20 milioni di vittime e martiri : Ebrei , Omosessuali , Rom , Sinti , Massoni , Polacchi, Testimoni di Geova , Pentecostali ,Dissidenti politici , Slavi , prigionieri di guerra Sovietici, infermi , bambini , anziani. L’antico Eden vide trasformarsi il proprio giardino in un campo di concentramento , testimone di orrori e abominevoli crudeltà senza precedenti.
Quello che portò a questo inferno fu una ideologia nazista che ben presto si propagò come un virus inarrestabile , contagiando altri paesi inclusi Italia e Spagna. Ufficialmente tutto l’orrore ebbe inizio nel 1934 nella famosa “Notte dei lunghi coltelli”. Da lì in avanti , il delirio che porto alla “soluzione finale” : i campi di sterminio , esecuzioni pubbliche ed esperimenti scientifici su esseri umani considerati “socialmente inutili” e quindi adatti all’essere cavie da laboratorio. I triangoli che marchiavano le diverse categorie :
Giallo: ebrei -- due triangoli sovrapposti a formare una stella di David)
Rosso: dissidenti politici
Rosso con al centro la lettera S: repubblicani spagnoli
Verde: criminali comuni
Viola: Testimoni di Geova
Blu: immigranti
Marrone: zingari
Nero: soggetti "antisociali" e lesbiche
Rosa: omosessuali maschi
Oggi dopo decenni di distanza dall’accaduto siamo ancora qui a ricordare. Il silenzio sarebbe forse persino più colpevole . Ed è in nome di questi milioni di anime che sono andate ad arricchire il cielo di nuove stelle che a denti stretti, con rabbia e ostinatezza faremo il possibile per ricordare.
Il Nazismo e l’Omosessualità
· Rapporti sterili ed egoistici
· Seria minaccia per la gioventù ed il futuro del Volk (popolo)
· Comportamento degenerato
· Nemici dello stato
· Corruttori della moralità pubblica
· Deviati
· Degenerazione genetica

Queste alcune delle definizioni degli omosessuali da parte del regime nazista .
Nella Berlino degli anni ‘20 e ’30 esistevano già circa 40 locali in cui omosessuali e lesbiche si riunivano. (tra i quali “Dorian Gray” , “Flauto magico” , “Monbijou des Westens”)
Importante ma vano (come risulterà) il lavoro della Lega dei diritti (1923-1933) a difesa degli omosessuali e delle lesbiche.
L’ascesa al potere di Hitler fece partire lentamente un processo di omofobia e razzismo che ben presto contagiò l’intero Reich.
Il Paragrafo 175 del codice penale tedesco , fino alla salita al potere di Hitler , non tanto preso in considerazione , diventò la Bibbia del razzismo e del bigottismo considerando atto criminale l’omosessualità per la quale erano così previste sanzioni penali e detenzione.
La follia dei campi di sterminio , le torture , gli esperimenti scientifici e medici sugli omosessuali (considerati inutili per la riproduzione della razza ariana) vive ancora nelle testimonianze di chi è riuscito a sopravvivere a quell’inferno. Testimonianze che , vecchie come i suoi protagonisti , tendono a scomparire , cancellate dal vento di una società negazionista e sempre più razzista.
Questa giornata, inoltre, intende ricordare tutti i genocidi contemporanei secondo la definizione delle Nazioni Unite che con la risoluzione 96 definisce il genocidio "Una negazione del diritto alla vita di gruppi umani, gruppi razziali, religiosi, politici o altri, che siano stati distrutti in tutto o in parte"
Il 9 dicembre 1948, fu adottata la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio che, all'articolo II, definisce il genocidio come
Uno dei seguenti atti effettuato con l'intento di distruggere, totalmente o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso:
(a) Uccidere membri del gruppo;
(b) Causare seri danni fisici o mentali a membri del gruppo;
(c) Influenzare deliberatamente le condizioni di vita del gruppo con lo scopo di portare alla sua distruzione fisica totale o parziale;
(d) Imporre misure tese a prevenire le nascite all'interno del gruppo;
(e) Trasferire forzatamente bambini del gruppo in un altro gruppo
Intendiamo quindi aprire una riflessione anche sulla Nakba e l’espulsione forzata e le uccisioni della popolazione palestinese nel 1948,le continue violazioni dei diritti umani con l’embargo di Gaza, l’apartheid in Sud Africa, il Ruanda, e i genocidi dimenticati come quello armeno, e non dimenticare le Leggi Razziali introdotte da Mussolini nel 1938 per far si che il razzismo venga cancellato dalla storia.
Ma l’impegno per il ricordo , e la lotta dei diritti UMANI sopravviverà sempre fin quando anche una sola persona dirà NO.
ARCIGAY MESSINA
BAHKTALO DROM Associazione ROM
CHIESA EVANGELICA VALDESE
SINISTRA E LIBERTA'
CASAMATTA DELLA SINISTRA
ASS. COMUNITARIA FILIPPINA
CIRCOLO ARCI THOMAS SANKARA

giovedì 21 gennaio 2010

Empoli accogliente come nessuno

"Vietato ai cinesi che non parlano italiano". Questo il testo di un cartello affisso da un commerciante di Empoli (Firenze) sulla porta del suo negozio situato nel centro storico della città. L'iniziativa ha suscitato polemiche e reazioni. Il commerciante, intervistato dai quotidiani locali ha voluto specificare che il suo non è stato un gesto razzista "ma di ribellione". L'esercente sostiene infatti che molti cinesi entrano nei negozi fingendo di non conoscere la nostra lingua, non comprano la merce ma si limitano ad osservare come sono cuciti i vestiti.

Ieri pomeriggio, su segnalazione di alcuni residenti, la polizia municipale ha fatto rimuovere il cartello. Poco dopo, secondo quanto riporta la stampa locale, qualcuno ha affisso un cartello di risposta alla provocazione del commerciante in cui è scritto: "Vietato l'ingresso agli americani che non parlano polacco, agli svedesi che non parlano spagnolo e agli svizzeri che non parlano arabo".

Il gesto è stato condannato anche da Luciana Cappelli, sindaco di Empoli. ''Si tratta di una cosa seria e grave - ha dichiarato -. Dobbiamo stare attenti al rischio di far crescere questi sentimenti in città''. ''Empoli non tollera questi gesti, è una città che ha forte il valore dell'integrazione - ha continuato -. Come amministrazione comunale vogliamo stigmatizzare questo comportamento. La polizia municipale ha già effettuato un sopralluogo. Acquisiremo tutti gli elementi del caso, poi valuteremo quali azioni intraprendere, perché vogliamo assolutamente evitare che simili iniziative possano ripetersi''.

Ufficio Stampa
Circolo Arci Thomas Sankara
ufficiostampasankara@tiscali.it

lunedì 18 gennaio 2010

A Gaza con il Viva Palestina Convoy

Questo comunicato stampa è una breve sintesi delle vicende del “Convoy to Gaza” inglese.
Ci riserviamo di dare un seguito con una analisi politica più approfondita.
Quello che va sottolineato e ribadito è che il successo del Convoy to Gaza è dovuto alla determinazione politica di tutti/e i partecipanti.
Nessuno tra gli organizzatori e tra i partecipanti ha mai messo in dubbio l’obiettivo del convoglio: entrare a Gaza. Questa determinazione ha permesso al convoglio di superare tutte le difficoltà frapposte dal governo egiziano in combutta con quello israeliano.


Abbiamo partecipato, unici italiani, al Viva Palestina Convoy, organizzato da Viva Palestina (VP) (http://www.vivapalestina.org/) e animato dal deputato britannico George Galloway. Il convoglio, partito da Londra il 6 dicembre 2009, ha attraversato Belgio, Germania, Austria, Italia, Grecia, Turchia, Siria, Giordania ed Egitto ed è arrivato, dopo infinite difficoltà, a Gaza la sera del 6 gennaio 2010.
Per quanti/e sono partiti/e da Londra l’odissea è durata un mese! Al convoglio formato in partenza da 350 attivisti/e britannici (molti delle comunità musulmane inglesi) da una delegazione della Malesia, e da 150 automezzi e ambulanze, si sono successivamente uniti un gruppo belga, una forte delegazione turca di circa 90 persone e 60 automezzi e ambulanze e circa 60 giovani di Viva Palesatine US. In totale circa 500 persone e circa 200 automezzi.
Come ISM-Italia, avevamo consegnato in Italia al convoglio, 10.000 euro di medicinali, forniti dalla Cooperazione Internazionale della Regione Piemonte. Abbiamo raggiunto il convoglio a Damasco il 21 dicembre e proseguito per la Giordania, con una straordinaria accoglienza della popolazione nei piccoli paesi attraversati, nelle città, con momenti di incontro con le comunità musulmane locali (ad Amman hanno raggiunto il convoglio anche tre rabbini del gruppo Naturei Karta), con il dono di cibo, acqua e dolci. A Damasco siamo stati ospitati a cura del governo siriano in un moderno complesso turistico alla periferia della città, sia il 21 dic, sia quando siamo passati di nuovo per raggiungere il porto di Lattakia. Ad Aqaba, bloccati dal rifiuto dell’Egitto di poter proseguire nel Sinai, per raggiungere Gaza, ormai a meno di 200 km, il 27 dicembre giorno dell’inizio dell’attacco israeliano del 2008, alcuni alberghi hanno messo a disposizione gratuitamente le loro stanze e offerto cibo a tutti. L’Egitto, malgrado gli accordi precedentemente sottoscritti con Viva Palestina ha posto tre condizioni:
di arrivare al porto di El Arish
di accettare il permesso di ingresso a Gaza da parte israeliana
di consegnare i materiali all’UNRWA
Queste due ultime condizioni sono state respinte dal convoglio.
Siamo stati comunque costretti a tornare in Siria sino al porto di Lattakia con un ulteriore viaggio di circa 800 km. Qui, dopo lunghe trattative della delegazione di VP, del governo siriano e turco con quello egiziano, tutti i mezzi sono stati fatti salire su una nave turca e le persone divise in 4 gruppi trasferite con voli charter all’aeroporto di El Arish.
Da quel momento infiniti ostacoli e continui nuovi raggiri sono stati posti dalle autorità egiziane: attese lunghissime all’aeroporto di El Arish per la verifica dei documenti, per alcuni gruppi oltre le sei ore, per altri una notte intera senza cibo e acqua, portati poi dalla croce rossa egiziana, senza sufficienti bagni, con l’appello finale per restituire i passaporti, gridati, i nomi, con voci rauche che ricordavano il Raus nazista, sino alla ‘detenzione’ nel compound del porto e all’attacco pianificato da parte della polizia egiziana a sera inoltrata.
La polizia egiziana, giunta in forze (circa 2000 poliziotti) e in assetto antisommossa, con decine di furgoni (della Iveco) nella tarda serata del 5 gennaio, ha iniziato a provocare chi manifestava per la chiusura dei cancelli e per il rifiuto egiziano di far entrare a Gaza alcuni veicoli. Hanno iniziato a lanciare sacchi di sabbia e pietre e successivamente a picchiare e arrestare chiunque fosse sotto tiro. Personalmente siamo stati testimoni dell’arrivo successivo, verso mezzanotte, di circa 200 giovanissimi poliziotti egiziani senza uniforme ma con sacchi di grosse pietre. Il bilancio, il giorno successivo, è stato di 55 feriti e 7 arrestati (fra cui due giovani attivisti del gruppo US Viva Palestina, con cui avevamo condiviso il lungo viaggio e che erano stati con noi poco prima).
E che oltre 500 attivisti filopalestinesi siano stati attaccati con pietre, l’arma della prima intifada palestinese, da la misura del grottesco con il quale si è mossa la polizia egiziana.
Nella tarda mattinata del 6, George Galloway, dopo lunghe e stressanti mediazioni, ha annunciato la liberazione degli arrestati e l’entrata nella striscia di Gaza per tutto il Convoy, tranne 59 veicoli alcuni dei quali con grosse apparecchiature e generatori, che Israele pretendeva passassero per Kerem Shalom. La delegazione turca ha spiegato poi che saranno destinati ai campi profughi palestinesi in Siria e Libano.
L’uscita dal compound e l’arrivo a Rafah hanno occupato tutto il pomeriggio e parte della notte tra il 6 e 7 gennaio. L’entrata nella Striscia di Gaza, con gruppi di palestinesi che offrivano garofani a tutti gli attivisti e attiviste nei veicoli ha ripagato tutti delle fatiche e delle lunghe attese. Uno dei ragazzi del nostro autobus, del US Viva Palestina, picchiato e con la testa fasciata, al suo arrivo ha detto di voler tenere il suo sangue sulla maglietta, come simbolo del sangue di tutti i palestinesi.
Secondo il Palestinian Center for Human Rights a Gaza sono entrate 482 persone e 130 veicoli del convoglio.
Il giorno 7 ci sono state le grandi manifestazioni di consegna dei veicoli e degli aiuti (medicinali innanzitutto, protesi, pacchi di materiale scolastico ecc.), l’incontro con le autorità del governo di Hamas, con un lungo discorso di ringraziamento del premier Haniyeh, che è il primo ministro legittimo dell’ANP e non semplicemente il primo ministro de facto a Gaza, ma anche con molti ragazzi e ragazze, con donne che volevano conoscere personalmente chi era riuscito ad arrivare sino a loro. “Da dove vieni, come ti chiami, perché sei venuto a Gaza?” erano le domande più frequenti durante tutto il giorno. “Vieni a casa mia, ti invito, stai con la mia famiglia”. Era rilevabile, specie fra i più giovani l’ansia di parlare con “chi sta nel mondo di fuori”, un’ansia, talora aggressiva nei giovani uomini, che tradiva il trauma subito non solo nel gennaio 2009, ma negli anni passati, trauma che la popolazione continua a subire, per la chiusura delle comunicazioni con l’esterno e per la paura di un'altra aggressione, “The Second Gaza War”, di cui molti parlano e che già si legge nei giornali israeliani.

All’uscita il giorno dopo (poiché ci erano state “concesse” dal governo egiziano solo 48 ore di permanenza nella Striscia), si aspetta l’apertura del valico per circa 8 ore (ormai è chiaro che gli egiziani non vogliono mostrare la presenza del convoglio agli abitanti del Sinai, perciò si viaggia sempre di notte). Alle 18,30 si aprono i cancelli e si entra in territorio egiziano. Chiusi fra i muri di cemento costruiti da israeliani ed egiziani, pensiamo a come ci si può sentire quando si vive in queste condizioni da anni. Alcuni palestinesi presenti ci informano che nella notte sono state colpite e distrutte case vicino a Khan Younis e uccisi 3 civili, compresa una bambina di pochi mesi. Terminate le procedure, ci fanno entrare negli autobus, contati più volte dai poliziotti; gli autobus vengono chiusi e, scortati da decine di furgoni di polizia, si parte per una lunga notte. Siamo in stato di arresto per essere deportati dall’aeroporto del Cairo come persone non grate. Alcuni autobus si rompono e si fermano nella nebbia e nel freddo del deserto. Si cambia autobus sotto un controllo duro con decine di poliziotti intorno. Spesso non permettono che donne e uomini possano scendere per le loro ‘esigenze primarie’. Lo permettono solo quando si urla. Così ‘deportati’ (se con noi ‘normali’ attivisti è questo il trattamento, possiamo immaginare come trattano i migranti clandestini e i palestinesi), si arriva all’aeroporto del Cairo, dove si aspetta ancora. E’ certamente una “punizione collettiva”, a cui ormai vengono addestrati anche i poliziotti egiziani. Ci tolgono i passaporti. Senza cibo e con scarse toilette. Molti non hanno più il biglietto, alcuni, specie fra i giovani, non possono pagarsene un altro e non possono quindi essere portati nei terminal. Perciò aspettano in ‘detenzione’ in attesa dell’intervento della relativa ambasciata. Via via che ciascuno/a riesce ad avere un volo assicurato, pagando un altro volo, viene portato al gate, dove la polizia ti fa il check-in e praticamente ti spedisce sin dentro l’aereo. Noi riusciamo ad avere un volo a metà pomeriggio del sabato 9 gennaio, altri meno fortunati rimarranno ancora una notte e ripartiranno domenica, sempre in stato di detenzione.

Certo ora è importante fare, insieme a tutti i gruppi di internazionali che hanno fatto queste esperienze, una riflessione politica lucida sulla situazione attuale e sulle strategie nuove da adottare.

L’esperienza che abbiamo avuto partecipando al Convoy è stata in ogni caso, molto positiva. Abbiamo incontrato decine di attivisti/e giovani e meno giovani, di culture e religioni diverse, vivaci, entusiasti, pronti ad ogni faticoso cambiamento di programma, ma decisi nell’essere uniti per arrivare a Gaza. Persone che hanno lavorato molto nei mesi precedenti a livello di comunità e territorio per organizzare il convoglio.
E’ stato anche molto importante l’aver attraversato paesi diversi e aver costruito insieme partecipazione e accoglienza nelle comunità, in particolare quelle musulmane, e ampliato l’informazione per far crescere un senso comune di solidarietà con tutto il popolo palestinese e in particolare con quello della striscia di Gaza, dove, non va dimenticato, è in corso un genocidio.

Diana Carminati e Alfredo Tradardi
ISM-Italia
Torino, 15 gennaio 2010

mercoledì 13 gennaio 2010

Reportage: Integrazione e Islam radicale nei Paesi Bassi

Con questo reportage, il giornalista siciliano Alessandro Di Maio ha vinto il "Europe is MORE than you think Award", prestigioso premio Europeo per giovani giornalisti.

Come integrare i nuovi immigrati provenienti da ogni angolo del mondo? Come funziona la via olandese all’integrazione? Perché è così difficile integrare e integrarsi? Perché alcune persone diventano radicali? Dall’11 Settembre 2001 l’esperimento olandese ha subito notevoli cambiamenti che fanno ritenere compromesso il sistema multietnico e culturale che da cinquant’anni caratterizza i Paesi Bassi.



Immigrati: 50-50, la doppia appartenenza
“L’11 Settembre del 2001 avevo solo dieci anni e non m’interessavo della realtà che mi circondava, vivevo con serenità e disinteresse la mia adolescenza. Per questo non posso ricordare la situazione in cui viveva la comunità islamica dei Paesi Bassi. Conosco solo quella di oggi”, ammette Ugur, un ragazzo turco-olandese di 20 anni che incontro nel sotterraneo della moschea Fatih Camii, al centro di Amsterdam.
Alto e col viso tondo e pacifico tipico dei popoli mediterranei, Ugur parla un inglese rapido non privo di errori, e lo fa gesticolando teatralmente le mani in aria, poggiandosi ad una parete di mattoni rossi da cui scendono i colori delle bandiere turca e olandese. Ugur fa parte della seconda generazione, è uno delle centinaia di migliaia di figli e figlie di immigrati venuti nei Paesi Bassi tanti anni fa per cercare un lavoro e delle migliori condizioni di vita.
“Sento una doppia appartenenza, fifty-fifty - dice. Amo entrambi i paesi e mi sento totalmente integrato in Turchia quanto nei Paesi Bassi. Parlo olandese con mio padre e turco con mia madre. Spendo i miei giorni tra lo studio dell’economia all’Università e il divertimento con gli amici qui alla moschea”.

Il sotterraneo della moschea è un centro d’incontro per giovani e anziani che vogliono trovare un piccolo angolo della cultura che risiede ancora nei loro cuori. Qui i fedeli guardano la televisione turca commentando le notizie con in mano un bicchiere di tè caldo, mentre i più giovani giocano agli scacchi, al computer e alle carte e i più anziani leggono il giornale facendo compagnia al barbiere che taglia i capelli in una saletta dalle pareti stracolme di vecchi poster anni ’70.
La maggior parte di essi sono turchi arrivati qui negli ultimi 30 anni, ma ci sono anche somali, pachistani e marocchini perché, come spiega Ugur, “questo luogo è per tutti e l’Imam è sempre pronto ad incontrare ed aiutare tutti”.
Ugur si preoccupa di spiegarmi che la comunità turca è moderata, assolutamente pacifica. “Noi non riconosciamo il radicalismo islamico, non applichiamo la Sharia, la legge islamica, e non siamo in contatto con quei piccoli gruppi radicali che continuano ad esistere nel paese - racconta. Ma le persone e soprattutto i Mass Media non conoscono l’Islam e confondono una minoranza radicale con una maggioranza pacifica”.
Il paradosso dell’integrazione
Dopo la crisi petrolifera del 1973, mentre molti paesi europei imponevano limiti più severi all’immigrazione, Amsterdam apriva le frontiere a decine di migliaia di immigrati provenienti da Africa, Medio Oriente e dalle ex colonie americane ed asiatiche, adottando quella che qualche anno dopo avrebbe costituito il mito multiculturale dell’Olanda.
Ugur è il risultato di quest’esperimento. Come milioni di altri immigrati musulmani diventati europei, i suoi genitori hanno preferito il rischio della segregazione sociale e della discriminazione razziale in Europea al caos economico e alle politiche autoritarie dei loro paesi d’origine.
Qualcuno potrebbe definire Ugur l’eccezione che conferma la regola del c.d. “paradosso dell’integrazione” spiegato in un intervista da Atef Hamdy, ricercatore e scienziato politico “all’Istituto Olandese Clingendael di Relazioni Internazionali”, specializzato nel fenomeno dell’immigrazione.
“I giovani della seconda generazione sono quelli che hanno più facilità e al tempo stesso più difficoltà ad integrarsi nella società olandese - dichiara Hamdy. Ci sono due livelli di non integrazione, uno esterno e uno interno: molti olandesi non riconoscono gli immigrati come veri cittadini olandesi e alcuni dei nuovi cittadini non considerano se stessi come olandesi”.
“C’è un gap generazionale tra questi giovani nuovi cittadini ed i loro genitori. Il più delle volte parlano lingue diverse e anche se fanno il loro meglio per integrarsi nella società olandese troveranno il muro della società olandese e, a differenza dei loro genitori, scarse prospettive di lavoro”, continua il politologo.
L’11 Settembre ha scoperchiato il Vaso di Pandora. Da quel momento essere musulmano ha cominciato ad essere un problema non soltanto negli Stati Uniti ma anche in Europa e nei Paesi Bassi.
Storici come Niall Ferguson hanno previsto che “una giovane popolazione musulmana proveniente da sud e dall’est del Mediterraneo è destinata a colonizzare l’Europa che ormai invecchia”, altri hanno parlato di un Europa destinata a diventare Eurabia, e “se molti olandesi – continua il ricercatore Hamdy - hanno iniziato a pensare che forse per un piccolo paese come i Paesi Bassi il numero dei musulmani fosse troppo alto, una minoranza sempre più rumorosa convinta che sia troppo tardi per risolvere democraticamente il problema perché il ‘nemico’ è già dentro casa” chiede l’espulsione dei musulmani dall’Europa.
Radicalismo e conflitto sociale
Chi parla di islamizzazione dell’Europa lo fa perché non ha una conoscenza approfondita delle società musulmane e fonde realtà molto diverse tra loro in un tutto indissolubile, in un Islam monolitico che minaccerebbe l’Occidente sia dal punto di vista demografico che da quello militare-terroristico.
Tuttavia, l’Islam monolitico non esiste, non soltanto per le differenze nazionali, linguistiche, culturali e religiose dei musulmani residenti in Europa, ma anche perché questi sono spesso originari da paesi laici o sincretici e non hanno nulla a che fare con sette islamiste radicali come quella wahhabista (proveniente dall’Arabia Saudita) che, benché fortemente minoritarie, rappresentano la visione generale che l’Occidente ha dell’Islam.
“La paura che dietro ogni musulmano si nascondesse un terrorista conquistò buona parte degli olandesi, i quali iniziarono ad essere diffidenti nei confronti degli immigrati, soprattutto di quelli che più faticavano ad integrarsi nella società olandese”, afferma Jan Peter, storico del Museo Storico di Amsterdam che preferisce non rivelare il suo cognome.
“Alcuni giovani musulmani figli della seconda generazione, rimasti soli dopo lo scontro con le paure e le diffidenze degli olandesi – continua lo storico – iniziarono a seguire la linea d’intransigenza e odio dettata dai piccoli gruppi islamisti radicali giù presenti nei Paesi Bassi, dando ossigeno alle paura di buona parte degli olandesi e generando un enorme conflitto sociale”.
Il sociologo Luciano Gallino definisce un conflitto sociale come “un tipo di interazione più o meno cosciente tra soggetti, caratterizzata da una divergenza di scopi tale, in presenza di risorse troppo scarse, da rendere oggettivamente necessario, o far apparire soggettivamente indispensabile, a ciascuna delle parti, il neutralizzare o impedire l'azione altrui, anche se ciò comporta infliggere consapevolmente un danno”.
I danni del conflitto sociale sono stati molti. Da una parte vi è stata la radicalizzazione politica e culturale di una parte dei cittadini olandesi, barricati ieri sotto le insegne del partito ‘Leefbaar Nederland’ di Pim Fortuyn e oggi sotto quelle del ‘Partito per la libertà’ (PVV) di Geert Wilders che hanno incendiato scuole islamiche e moschee. Dall’altra vi sono state intimidazioni, sommosse e gli omicidi di Pim Fortuyn (2002) e dell’artista Theo Van Gogh (2004), i primi omicidi politici nei Paesi Bassi degli ultimi 200 anni.
“Nonostante ciò, il conflitto sociale ha dato alla comunità islamica la possibilità di ripensare la propria posizione all’interno della società olandese, di capire che da questo momento, invece di sentirsi vittima, avrebbe dovuto considerare se stessa come parte attiva della società olandese, sia dal punto di vista socio-politico che da quello economico. Questo cambiamento - continua Hamdy – è stato notato dalla cittadinanza bianca olandese, facendo diminuire le paure che la attanagliavano fino a pochi anni fa”.
Ma se la paura è diminuita, la diffidenza nei confronti degli immigrati, soprattutto se di religione musulmana, non sembra scemare. Alle ultime elezioni europee il ‘Partito per la libertà’ – islamofobo e nazionalista – di Geert Wilders ha ottenuto quasi il 17 % dei voti totali divenendo il secondo partito più grande dei Paesi Bassi.
Per capire la situazione contatto il PVV chiedendo un intervista sul tema. Mi viene detto che Wilders rilascia interviste solo a grandi giornali nazionali solo dopo aver esaminato personalmente e con scrupolo i curriculum dei giornalisti che vogliono incontrarlo. Insisto, ma il giorno dopo mi comunicano che l’intervista non verrà concessa. “Così non potrò conoscere i motivi delle vostre posizioni sul tema dell’immigrazione e dell’integrazione utili per il mio reportage”, ribatto. “La nostra politica è chiara a tutti. Se vuole sapere i motivi si guardi intorno. Ci dispiace, grazie e buona giornata”, mi risponde in tono deciso ma gentile la segretaria.
L’Imam turco e l’islam moderato
Con l’indice ed il pollice, Ugur poggia sul tavolo un bicchierino di vetro pieno fino all’orlo di un liquido fumante che definisce “il più buono tè turco al mondo dopo quello fatto ad Istanbul”. Quando finisce di raccomandare attenzione a non scottarmi, giunge Mehmet Yúrek, l’Imam della moschea. I presenti distaccano lo sguardo dalla televisione, dalla scacchiera e dallo schermo del computer per alzarsi e stringergli la mano. L’Imam sorride e saluta tutti.
E’ turco anche lui, ha più di quarant’anni e porta occhiali da vista graduati che gli scuriscono gli occhi. Si trova ad Amsterdam da qualche anno e tra due anni dovrà tornare in Turchia per ripartire verso un nuovo paese e una nuova moschea.
“Ha già visitato la moschea?”, mi chiede incontrandomi. “No, al mio arrivo mi è stato più volte detto che senza il suo permesso sarebbe stato impossibile entrare”, rispondo.
Si sorprende e dopo aver guardato negli occhi alcuni dei fedeli lì presenti mi guida attraverso i corridoi e le scale dell’edificio fino all’interno sacro della moschea. “Questa era una chiesa”, dice togliendosi le scarpe ed invitandomi con un gesto della mano a fare altrettanto.
L’ambiente è grande e freddo. Non vi sono né croci, né statue, ma la tipica architettura della chiesa è riconoscibile dal tetto e dalla pianta a croce latina dell’intero edificio. Il pavimento è in parquet di legno, e a fianco delle colonne portanti vi sono fedeli in preghiera, alcuni dei quali pregano con in mano un Tasbih, il rosario islamico utilizzato per glorificare Allah.
Ci dirigiamo verso il Mihrab, l’abside in ceramica sulla parete della Qibla che indica la direzione de La Mecca, la giusta direzione verso cui pregare. Lì, aiutato dalla traduzione di Ugur, l’Imam dice che “i radicali sono ovunque, in ogni comunità e società, in ogni religione ed ideologia politica ma l’Islam è una religione pacifica. Tutte le religioni sono pacifiche e non fanno altro che predicare una vita di tolleranza, pace e fraternità”.
“Abbiamo isolato gli estremisti. Nella nostra moschea e nell’intera società olandese non c’è spazio per loro. Sono incapaci di rispettare le differenze, di rispettare gli altri perché fanno uno uso sbagliato del Corano, utilizzandolo per odiare e non per amare”, continua il religioso indicando l’abito cerimoniale bianco appeso alle scale in legno che portano al Minbar, il pulpito dal quale si rivolge ai fedeli durante la preghiera del venerdì.
Decide di indossare gli abiti cerimoniali perchè in meno di un ora centinaia di fedeli musulmani verranno qui a pregare e ascoltare il suo sermone. “Viviamo insieme e ci aiutiamo a vicenda – continua. In questo modo ogni problema viene risolto ed eventuali idee radicali vengono soppresse”.
Quando gli chiedo la reazione avuta dalla società olandese di fronte alla conversione di una chiesa cristiana in una moschea al centro di Amsterdam risponde dicendo che “prima non era un problema perché sapevano di interloquire con una comunità pacifica, ma oggi – aggiunge – sarebbe un po’ più dura da accettare perché nei confronti della comunità musulmana, e quindi non del singolo musulmano, gli olandesi nutrono un certo timore”.
Islam tra crisi economica ed educazione
Ma se l’11 Settembre è ormai distante, se la comunità islamica ha iniziato a comprendere il suo nuovo ruolo nei Paesi Bassi e se i cittadini olandesi apprezzano questo nuovo corso, perché partiti politici e movimenti come il PVV di Wilders aumentano costantemente i propri voti? Perché oggi convertire una chiesa cristiana non utilizzata in una moschea strapiena di fedeli sarebbe un problema?
Richa è un algerino di 40 anni e da più di quindici vive ad Amsterdam dove lavora come consulente finanziario per alcune imprese olandesi. E’ di fede islamica ed è convinto che la diffidenza nei confronti dei musulmani sia dovuta alla crisi economica. “Come accade sempre in periodo di crisi, si è creato un conflitto sociale tra chi è olandese da generazioni e crede che tutto gli sia dovuto, e chi, immigrato nei Paesi Bassi o parte della seconda generazione, lotta ogni giorno per migliorare lo status famigliare”.
Per Richa lo scontro in una situazione di crisi in cui scarseggia il lavoro “è un comportamento normale che va combattuto con la cultura e l’educazione. Ciò che possiamo fare – aggiunge – è combattere l’ignoranza poiché essa genera intolleranza e odio”, e lo dimostra prendendo ad esempio la comunità marocchina nel paese: “è quella con il minor numero di diplomati e laureati, quella che riscontra maggiori difficoltà nel mercato del lavoro e nell’integrazione quotidiana e quella che più delle altre mostra il fianco a posizioni ultraconservatrici e radicali” che, per esempio, spingono ogni anno un gruppo di marocchini del sud del paese a manifestare la propria gioia per gli attacchi terroristici inferti agli Stati Uniti d’America l’11 Settembre del 2001.
Che l’educazione sia lo strumento migliore per favorire l’integrazione degli immigrati musulmani e scongiurare una loro deriva islamista di stampo terroristico e radicale, lo conferma anche Rahmat K. Rahman, direttore della scuola islamica As-Soeffah situata nella periferia sud-orientale di Amsterdam.
Lo incontro durante l’orario di lezione in un’insolita calda giornata di metà ottobre. L’ambiente è accogliente e pulito, e se non fosse per i disegni attaccati alle pareti, per i poster della Cupola della roccia di Gerusalemme e per gli addobbi del Ramadan ancora appesi alle finestre, sembrerebbe di stare in una qualsiasi scuola pubblica, ma quella diretta da Rahman è un istituto elementare di tipo ‘speciale’, cioè basato su fondamenti e tradizioni religiose - in questo caso islamiche - e finanziato dallo Stato come previsto da una legge del 1917, che elargisce denaro pubblico ad ogni tipo di istituto scolastico.
Vestito da una tunica bianca, il direttore è rilassato e si mostra disponibile e gentile sin dal primo momento. Porta il copricapo islamico, piccoli occhiali da vista e una folta e ben curata barba nera.“I Paesi Bassi sono l’unico paese dell’Unione Europea che prevede il finanziamento pubblico per le madrasa, le scuole islamiche. Di questo l’intera comunità islamica sarà sempre grata al paese”, afferma Rahman.
Benché i primi immigrati musulmani arrivarono dalla Turchia e dal Maghreb tra il 1950 e il 1960, le prime madrasa iniziarono la loro attività attorno agli anni ’70, quando il concetto di guestworker –lavoratore straniero temporaneo – fu sostituito da lavoratori immigrati decisi a rimanere stabilmente nei Paesi Bassi. Ciò rese necessaria una politica d’integrazione degli immigrati che portò alle prime scuole islamiche.
“Questa – dice il direttore muovendo il braccio destro ad indicare la scuola – è una fucina di integrazione. E’ una normale scuola pubblica che oltre agli ordinari insegnamenti impartisce la dottrina religiosa islamica e le sue tradizioni. In più – aggiunge puntando in aria l’indice della mano destra – qui abbiamo tre plessi: islamico, cristiano e pubblico, e durante le festività di qualsiasi religione, a Natale come per il Ramadan, stiamo sempre insieme”.
“I bambini crescono sapendo che siamo tutti fratelli e sorelle e che le differenze culturali, etniche, religiose vanno rispettate perché costituiscono motivo di arricchimento culturale per se stessi e per l’intera società”, aggiunge Rahman.
Oggi nel paese vi sono più di novanta scuole islamiche di vario livello. In passato alcune madrasa furono chiuse perché istigavano alla violenza o perché all’interno di esse gli insegnanti maltrattavano gli scolari. Quando chiedo se esistono ancora scuole islamiche radicali, Rahman dice di “non voler essere coinvolto in cose del genere”. Poi ammette: “erano finanziati da gruppi di wahhabisti sauditi, di radicali. Fortunatamente non esistono più perché sulle madrasa, come su tutte le scuole pubbliche e private del paese, vi è un maggiore controllo da parte del governo di Amsterdam che controlla il rispetto dei dettami ministeriali”.
Quando lascio l’ufficio del direttore, la campanella suona facendo sfrecciare fuori da tutti e tre i plessi dell’istituto centinaia di bambini e bambine dai 6 ai 12 anni, di ogni religione e colore delle pelle. Sorridono, corrono, gridano, giocano insieme, aspettando di essere raggiunti dalle proprie madri, che in jeans e maglietta, o con il velo islamico – Hijab, Niqab o Chador, rispettivamente il velo islamico, la tunica che lascia visibili solo gli occhi e quella che copre solo testa e spalle lasciando libero il volto - sono venute a prenderli.


Articolo/Fotografie: Alessandro Di Maio
(pubblicato il 18 Ottobre 2009 su LaSpecula.com

sabato 9 gennaio 2010

Comunicato Arci sui fatti di Rosarno

Sabato 9 alle ore 16.30 sit-in a Roma.
Si trovino immediatamente soluzioni all'emergenza abitativaIl governo intervenga perché venga concesso il permesso di soggiorno per motivi umanitari ai lavoratori stranieri. Dichiarazione di Paolo Beni, presidente nazionale Arci e Filippo Miraglia, responsabile immigrazione Arci. Quello che è successo e sta accadendo a Rosarno in queste ore desta una grande preoccupazione. Bisogna adoperarsi perché la prevedibile ribellione di centinaia di esseri umani costretti a vivere nel degrado più estremo e a lavorare in condizioni di schiavitù non degeneri in atti di violenza che mettano a rischio l'incolumità fisica degli immigrati e degli abitanti di Rosarno.Le autorità locali e nazionali, le organizzazioni che lavorano a fianco dei migranti devono intervenire innanzitutto per riportare la calma, ripristinando le condizioni per l'apertura di un confronto con e tra tutti coloro che nella cittadina vivono, italiani e stranieri.Il ministro Maroni ha dichiarato che quanto è successo è frutto dell'eccessivo lassismo verso i clandestini. Noi pensiamo che clandestino in quella regione sia lo Stato, che ha consegnato lì, come in tante altre parti d'Italia, il territorio alle mafie, lasciando sole le comunità locali. Le mafie impongono così le loro regole, lucrando sulla pelle di lavoratori che le scelte di questo governo hanno privato dei più elementari diritti umani e civili. Migliaia di "non persone", esposte all'arbitrio, alla violenza razzista, alla discriminazione sancita per legge, a brutali intimidazioni come quella di ieri.La legge Bossi-Fini e poi il Pacchetto sicurezza, impedendo gli ingressi regolari, si stanno dimostrando i migliori alleati degli interessi della criminalità organizzata, che controlla il traffico di esseri umani, dispone di una quantità di manodopera in nero, senza tutele, costretta all'irregolarità e dunque impossibilitata a denunciare gli aguzzini.Il governo fa finta di non vedere, non stanzia risorse per politiche di integrazione e intanto nell'Italia del G8 c'è chi vive in ghetti degradati, espropriato della sua dignità.E' necessario che finalmente le istituzioni ai vari livelli intervengano, intanto con misure che permettano di risolvere subito l'emergenza abitativa, garantendo condizioni di vita dignitose.Il governo deve impegnarsi perché vengano concessi permessi di soggiorno per motivi umanitari. Sarebbe davvero inaccettabile se l'esito di quel che è successo fosse una deportazione di massa di quanti non sono in regola col permesso di soggiorno. Bisogna poi pianificare un intervento sul territorio in grado di ricostruire le condizioni di una pacifica convivenza, prevedendo percorsi di integrazione anche individualizzati che mettano queste persone nelle condizioni di costruirsi un futuro dignitoso nel nostro paese.