mercoledì 13 gennaio 2010

Reportage: Integrazione e Islam radicale nei Paesi Bassi

Con questo reportage, il giornalista siciliano Alessandro Di Maio ha vinto il "Europe is MORE than you think Award", prestigioso premio Europeo per giovani giornalisti.

Come integrare i nuovi immigrati provenienti da ogni angolo del mondo? Come funziona la via olandese all’integrazione? Perché è così difficile integrare e integrarsi? Perché alcune persone diventano radicali? Dall’11 Settembre 2001 l’esperimento olandese ha subito notevoli cambiamenti che fanno ritenere compromesso il sistema multietnico e culturale che da cinquant’anni caratterizza i Paesi Bassi.



Immigrati: 50-50, la doppia appartenenza
“L’11 Settembre del 2001 avevo solo dieci anni e non m’interessavo della realtà che mi circondava, vivevo con serenità e disinteresse la mia adolescenza. Per questo non posso ricordare la situazione in cui viveva la comunità islamica dei Paesi Bassi. Conosco solo quella di oggi”, ammette Ugur, un ragazzo turco-olandese di 20 anni che incontro nel sotterraneo della moschea Fatih Camii, al centro di Amsterdam.
Alto e col viso tondo e pacifico tipico dei popoli mediterranei, Ugur parla un inglese rapido non privo di errori, e lo fa gesticolando teatralmente le mani in aria, poggiandosi ad una parete di mattoni rossi da cui scendono i colori delle bandiere turca e olandese. Ugur fa parte della seconda generazione, è uno delle centinaia di migliaia di figli e figlie di immigrati venuti nei Paesi Bassi tanti anni fa per cercare un lavoro e delle migliori condizioni di vita.
“Sento una doppia appartenenza, fifty-fifty - dice. Amo entrambi i paesi e mi sento totalmente integrato in Turchia quanto nei Paesi Bassi. Parlo olandese con mio padre e turco con mia madre. Spendo i miei giorni tra lo studio dell’economia all’Università e il divertimento con gli amici qui alla moschea”.

Il sotterraneo della moschea è un centro d’incontro per giovani e anziani che vogliono trovare un piccolo angolo della cultura che risiede ancora nei loro cuori. Qui i fedeli guardano la televisione turca commentando le notizie con in mano un bicchiere di tè caldo, mentre i più giovani giocano agli scacchi, al computer e alle carte e i più anziani leggono il giornale facendo compagnia al barbiere che taglia i capelli in una saletta dalle pareti stracolme di vecchi poster anni ’70.
La maggior parte di essi sono turchi arrivati qui negli ultimi 30 anni, ma ci sono anche somali, pachistani e marocchini perché, come spiega Ugur, “questo luogo è per tutti e l’Imam è sempre pronto ad incontrare ed aiutare tutti”.
Ugur si preoccupa di spiegarmi che la comunità turca è moderata, assolutamente pacifica. “Noi non riconosciamo il radicalismo islamico, non applichiamo la Sharia, la legge islamica, e non siamo in contatto con quei piccoli gruppi radicali che continuano ad esistere nel paese - racconta. Ma le persone e soprattutto i Mass Media non conoscono l’Islam e confondono una minoranza radicale con una maggioranza pacifica”.
Il paradosso dell’integrazione
Dopo la crisi petrolifera del 1973, mentre molti paesi europei imponevano limiti più severi all’immigrazione, Amsterdam apriva le frontiere a decine di migliaia di immigrati provenienti da Africa, Medio Oriente e dalle ex colonie americane ed asiatiche, adottando quella che qualche anno dopo avrebbe costituito il mito multiculturale dell’Olanda.
Ugur è il risultato di quest’esperimento. Come milioni di altri immigrati musulmani diventati europei, i suoi genitori hanno preferito il rischio della segregazione sociale e della discriminazione razziale in Europea al caos economico e alle politiche autoritarie dei loro paesi d’origine.
Qualcuno potrebbe definire Ugur l’eccezione che conferma la regola del c.d. “paradosso dell’integrazione” spiegato in un intervista da Atef Hamdy, ricercatore e scienziato politico “all’Istituto Olandese Clingendael di Relazioni Internazionali”, specializzato nel fenomeno dell’immigrazione.
“I giovani della seconda generazione sono quelli che hanno più facilità e al tempo stesso più difficoltà ad integrarsi nella società olandese - dichiara Hamdy. Ci sono due livelli di non integrazione, uno esterno e uno interno: molti olandesi non riconoscono gli immigrati come veri cittadini olandesi e alcuni dei nuovi cittadini non considerano se stessi come olandesi”.
“C’è un gap generazionale tra questi giovani nuovi cittadini ed i loro genitori. Il più delle volte parlano lingue diverse e anche se fanno il loro meglio per integrarsi nella società olandese troveranno il muro della società olandese e, a differenza dei loro genitori, scarse prospettive di lavoro”, continua il politologo.
L’11 Settembre ha scoperchiato il Vaso di Pandora. Da quel momento essere musulmano ha cominciato ad essere un problema non soltanto negli Stati Uniti ma anche in Europa e nei Paesi Bassi.
Storici come Niall Ferguson hanno previsto che “una giovane popolazione musulmana proveniente da sud e dall’est del Mediterraneo è destinata a colonizzare l’Europa che ormai invecchia”, altri hanno parlato di un Europa destinata a diventare Eurabia, e “se molti olandesi – continua il ricercatore Hamdy - hanno iniziato a pensare che forse per un piccolo paese come i Paesi Bassi il numero dei musulmani fosse troppo alto, una minoranza sempre più rumorosa convinta che sia troppo tardi per risolvere democraticamente il problema perché il ‘nemico’ è già dentro casa” chiede l’espulsione dei musulmani dall’Europa.
Radicalismo e conflitto sociale
Chi parla di islamizzazione dell’Europa lo fa perché non ha una conoscenza approfondita delle società musulmane e fonde realtà molto diverse tra loro in un tutto indissolubile, in un Islam monolitico che minaccerebbe l’Occidente sia dal punto di vista demografico che da quello militare-terroristico.
Tuttavia, l’Islam monolitico non esiste, non soltanto per le differenze nazionali, linguistiche, culturali e religiose dei musulmani residenti in Europa, ma anche perché questi sono spesso originari da paesi laici o sincretici e non hanno nulla a che fare con sette islamiste radicali come quella wahhabista (proveniente dall’Arabia Saudita) che, benché fortemente minoritarie, rappresentano la visione generale che l’Occidente ha dell’Islam.
“La paura che dietro ogni musulmano si nascondesse un terrorista conquistò buona parte degli olandesi, i quali iniziarono ad essere diffidenti nei confronti degli immigrati, soprattutto di quelli che più faticavano ad integrarsi nella società olandese”, afferma Jan Peter, storico del Museo Storico di Amsterdam che preferisce non rivelare il suo cognome.
“Alcuni giovani musulmani figli della seconda generazione, rimasti soli dopo lo scontro con le paure e le diffidenze degli olandesi – continua lo storico – iniziarono a seguire la linea d’intransigenza e odio dettata dai piccoli gruppi islamisti radicali giù presenti nei Paesi Bassi, dando ossigeno alle paura di buona parte degli olandesi e generando un enorme conflitto sociale”.
Il sociologo Luciano Gallino definisce un conflitto sociale come “un tipo di interazione più o meno cosciente tra soggetti, caratterizzata da una divergenza di scopi tale, in presenza di risorse troppo scarse, da rendere oggettivamente necessario, o far apparire soggettivamente indispensabile, a ciascuna delle parti, il neutralizzare o impedire l'azione altrui, anche se ciò comporta infliggere consapevolmente un danno”.
I danni del conflitto sociale sono stati molti. Da una parte vi è stata la radicalizzazione politica e culturale di una parte dei cittadini olandesi, barricati ieri sotto le insegne del partito ‘Leefbaar Nederland’ di Pim Fortuyn e oggi sotto quelle del ‘Partito per la libertà’ (PVV) di Geert Wilders che hanno incendiato scuole islamiche e moschee. Dall’altra vi sono state intimidazioni, sommosse e gli omicidi di Pim Fortuyn (2002) e dell’artista Theo Van Gogh (2004), i primi omicidi politici nei Paesi Bassi degli ultimi 200 anni.
“Nonostante ciò, il conflitto sociale ha dato alla comunità islamica la possibilità di ripensare la propria posizione all’interno della società olandese, di capire che da questo momento, invece di sentirsi vittima, avrebbe dovuto considerare se stessa come parte attiva della società olandese, sia dal punto di vista socio-politico che da quello economico. Questo cambiamento - continua Hamdy – è stato notato dalla cittadinanza bianca olandese, facendo diminuire le paure che la attanagliavano fino a pochi anni fa”.
Ma se la paura è diminuita, la diffidenza nei confronti degli immigrati, soprattutto se di religione musulmana, non sembra scemare. Alle ultime elezioni europee il ‘Partito per la libertà’ – islamofobo e nazionalista – di Geert Wilders ha ottenuto quasi il 17 % dei voti totali divenendo il secondo partito più grande dei Paesi Bassi.
Per capire la situazione contatto il PVV chiedendo un intervista sul tema. Mi viene detto che Wilders rilascia interviste solo a grandi giornali nazionali solo dopo aver esaminato personalmente e con scrupolo i curriculum dei giornalisti che vogliono incontrarlo. Insisto, ma il giorno dopo mi comunicano che l’intervista non verrà concessa. “Così non potrò conoscere i motivi delle vostre posizioni sul tema dell’immigrazione e dell’integrazione utili per il mio reportage”, ribatto. “La nostra politica è chiara a tutti. Se vuole sapere i motivi si guardi intorno. Ci dispiace, grazie e buona giornata”, mi risponde in tono deciso ma gentile la segretaria.
L’Imam turco e l’islam moderato
Con l’indice ed il pollice, Ugur poggia sul tavolo un bicchierino di vetro pieno fino all’orlo di un liquido fumante che definisce “il più buono tè turco al mondo dopo quello fatto ad Istanbul”. Quando finisce di raccomandare attenzione a non scottarmi, giunge Mehmet Yúrek, l’Imam della moschea. I presenti distaccano lo sguardo dalla televisione, dalla scacchiera e dallo schermo del computer per alzarsi e stringergli la mano. L’Imam sorride e saluta tutti.
E’ turco anche lui, ha più di quarant’anni e porta occhiali da vista graduati che gli scuriscono gli occhi. Si trova ad Amsterdam da qualche anno e tra due anni dovrà tornare in Turchia per ripartire verso un nuovo paese e una nuova moschea.
“Ha già visitato la moschea?”, mi chiede incontrandomi. “No, al mio arrivo mi è stato più volte detto che senza il suo permesso sarebbe stato impossibile entrare”, rispondo.
Si sorprende e dopo aver guardato negli occhi alcuni dei fedeli lì presenti mi guida attraverso i corridoi e le scale dell’edificio fino all’interno sacro della moschea. “Questa era una chiesa”, dice togliendosi le scarpe ed invitandomi con un gesto della mano a fare altrettanto.
L’ambiente è grande e freddo. Non vi sono né croci, né statue, ma la tipica architettura della chiesa è riconoscibile dal tetto e dalla pianta a croce latina dell’intero edificio. Il pavimento è in parquet di legno, e a fianco delle colonne portanti vi sono fedeli in preghiera, alcuni dei quali pregano con in mano un Tasbih, il rosario islamico utilizzato per glorificare Allah.
Ci dirigiamo verso il Mihrab, l’abside in ceramica sulla parete della Qibla che indica la direzione de La Mecca, la giusta direzione verso cui pregare. Lì, aiutato dalla traduzione di Ugur, l’Imam dice che “i radicali sono ovunque, in ogni comunità e società, in ogni religione ed ideologia politica ma l’Islam è una religione pacifica. Tutte le religioni sono pacifiche e non fanno altro che predicare una vita di tolleranza, pace e fraternità”.
“Abbiamo isolato gli estremisti. Nella nostra moschea e nell’intera società olandese non c’è spazio per loro. Sono incapaci di rispettare le differenze, di rispettare gli altri perché fanno uno uso sbagliato del Corano, utilizzandolo per odiare e non per amare”, continua il religioso indicando l’abito cerimoniale bianco appeso alle scale in legno che portano al Minbar, il pulpito dal quale si rivolge ai fedeli durante la preghiera del venerdì.
Decide di indossare gli abiti cerimoniali perchè in meno di un ora centinaia di fedeli musulmani verranno qui a pregare e ascoltare il suo sermone. “Viviamo insieme e ci aiutiamo a vicenda – continua. In questo modo ogni problema viene risolto ed eventuali idee radicali vengono soppresse”.
Quando gli chiedo la reazione avuta dalla società olandese di fronte alla conversione di una chiesa cristiana in una moschea al centro di Amsterdam risponde dicendo che “prima non era un problema perché sapevano di interloquire con una comunità pacifica, ma oggi – aggiunge – sarebbe un po’ più dura da accettare perché nei confronti della comunità musulmana, e quindi non del singolo musulmano, gli olandesi nutrono un certo timore”.
Islam tra crisi economica ed educazione
Ma se l’11 Settembre è ormai distante, se la comunità islamica ha iniziato a comprendere il suo nuovo ruolo nei Paesi Bassi e se i cittadini olandesi apprezzano questo nuovo corso, perché partiti politici e movimenti come il PVV di Wilders aumentano costantemente i propri voti? Perché oggi convertire una chiesa cristiana non utilizzata in una moschea strapiena di fedeli sarebbe un problema?
Richa è un algerino di 40 anni e da più di quindici vive ad Amsterdam dove lavora come consulente finanziario per alcune imprese olandesi. E’ di fede islamica ed è convinto che la diffidenza nei confronti dei musulmani sia dovuta alla crisi economica. “Come accade sempre in periodo di crisi, si è creato un conflitto sociale tra chi è olandese da generazioni e crede che tutto gli sia dovuto, e chi, immigrato nei Paesi Bassi o parte della seconda generazione, lotta ogni giorno per migliorare lo status famigliare”.
Per Richa lo scontro in una situazione di crisi in cui scarseggia il lavoro “è un comportamento normale che va combattuto con la cultura e l’educazione. Ciò che possiamo fare – aggiunge – è combattere l’ignoranza poiché essa genera intolleranza e odio”, e lo dimostra prendendo ad esempio la comunità marocchina nel paese: “è quella con il minor numero di diplomati e laureati, quella che riscontra maggiori difficoltà nel mercato del lavoro e nell’integrazione quotidiana e quella che più delle altre mostra il fianco a posizioni ultraconservatrici e radicali” che, per esempio, spingono ogni anno un gruppo di marocchini del sud del paese a manifestare la propria gioia per gli attacchi terroristici inferti agli Stati Uniti d’America l’11 Settembre del 2001.
Che l’educazione sia lo strumento migliore per favorire l’integrazione degli immigrati musulmani e scongiurare una loro deriva islamista di stampo terroristico e radicale, lo conferma anche Rahmat K. Rahman, direttore della scuola islamica As-Soeffah situata nella periferia sud-orientale di Amsterdam.
Lo incontro durante l’orario di lezione in un’insolita calda giornata di metà ottobre. L’ambiente è accogliente e pulito, e se non fosse per i disegni attaccati alle pareti, per i poster della Cupola della roccia di Gerusalemme e per gli addobbi del Ramadan ancora appesi alle finestre, sembrerebbe di stare in una qualsiasi scuola pubblica, ma quella diretta da Rahman è un istituto elementare di tipo ‘speciale’, cioè basato su fondamenti e tradizioni religiose - in questo caso islamiche - e finanziato dallo Stato come previsto da una legge del 1917, che elargisce denaro pubblico ad ogni tipo di istituto scolastico.
Vestito da una tunica bianca, il direttore è rilassato e si mostra disponibile e gentile sin dal primo momento. Porta il copricapo islamico, piccoli occhiali da vista e una folta e ben curata barba nera.“I Paesi Bassi sono l’unico paese dell’Unione Europea che prevede il finanziamento pubblico per le madrasa, le scuole islamiche. Di questo l’intera comunità islamica sarà sempre grata al paese”, afferma Rahman.
Benché i primi immigrati musulmani arrivarono dalla Turchia e dal Maghreb tra il 1950 e il 1960, le prime madrasa iniziarono la loro attività attorno agli anni ’70, quando il concetto di guestworker –lavoratore straniero temporaneo – fu sostituito da lavoratori immigrati decisi a rimanere stabilmente nei Paesi Bassi. Ciò rese necessaria una politica d’integrazione degli immigrati che portò alle prime scuole islamiche.
“Questa – dice il direttore muovendo il braccio destro ad indicare la scuola – è una fucina di integrazione. E’ una normale scuola pubblica che oltre agli ordinari insegnamenti impartisce la dottrina religiosa islamica e le sue tradizioni. In più – aggiunge puntando in aria l’indice della mano destra – qui abbiamo tre plessi: islamico, cristiano e pubblico, e durante le festività di qualsiasi religione, a Natale come per il Ramadan, stiamo sempre insieme”.
“I bambini crescono sapendo che siamo tutti fratelli e sorelle e che le differenze culturali, etniche, religiose vanno rispettate perché costituiscono motivo di arricchimento culturale per se stessi e per l’intera società”, aggiunge Rahman.
Oggi nel paese vi sono più di novanta scuole islamiche di vario livello. In passato alcune madrasa furono chiuse perché istigavano alla violenza o perché all’interno di esse gli insegnanti maltrattavano gli scolari. Quando chiedo se esistono ancora scuole islamiche radicali, Rahman dice di “non voler essere coinvolto in cose del genere”. Poi ammette: “erano finanziati da gruppi di wahhabisti sauditi, di radicali. Fortunatamente non esistono più perché sulle madrasa, come su tutte le scuole pubbliche e private del paese, vi è un maggiore controllo da parte del governo di Amsterdam che controlla il rispetto dei dettami ministeriali”.
Quando lascio l’ufficio del direttore, la campanella suona facendo sfrecciare fuori da tutti e tre i plessi dell’istituto centinaia di bambini e bambine dai 6 ai 12 anni, di ogni religione e colore delle pelle. Sorridono, corrono, gridano, giocano insieme, aspettando di essere raggiunti dalle proprie madri, che in jeans e maglietta, o con il velo islamico – Hijab, Niqab o Chador, rispettivamente il velo islamico, la tunica che lascia visibili solo gli occhi e quella che copre solo testa e spalle lasciando libero il volto - sono venute a prenderli.


Articolo/Fotografie: Alessandro Di Maio
(pubblicato il 18 Ottobre 2009 su LaSpecula.com