Solera
G. (2013), Riscatto mediterraneo. Voci e luoghi di dignità e resistenza,
Nuovadimensione, Venezia, (pp. 7-377).
Certo, le storie sono
fatte di parole ma ci sono due modi di comunicare, attraverso le parole (tutte
“perfette”, “eguali”), e attraverso le
storie (“imperfette”, “diverse”); così accade che ilracconto ecceda la
linearità del “discorso” nel ricostruire il “percorso” dell’esperienza vissuta
che quindi “si compie quando viene narrata” (Jedlowski, 2009). Questo
probabilmente l’auspicio dell’«autore» – Gianluca Solera – meglio, di chi “narra”
affinché l’esperienza (di colui che ascolta e guarda, osserva e condivide con i
“testimoni” degli eventi che narra, emozioni, sentimenti, conoscenze, azioni)
costituisca un contributo per una “utopia” condivisa: il riscatto del
Mediterraneo, la “madre di tutte le battaglie” nell’orizzonte “glocale” delle
“lotte” per il “pane, la libertà, la giustizia”. Sì, ancora una volta il
Mediterraneo come modello, come “paradigma” per le ragioni che “storicamente” –
pensiamo a Braudel – lo connotano come “pluriverso”, possibile cifra di un
“cosmopolitismo discrepante” e “critico”, situato e contingente. Mediterraneo
come “contesto” ermeneutico in cui decostruire il “testo” dei fondamentalismi,
culturali e politici certo, ma anche, ci ricorda Solera, il “fondamentalismo” economico
neoliberista, che di questo tempo storico si è fatto cornice egemonica. Il Mediterraneo
dunque e l’ibridazione culturale: contro la retorica dello scontro di civiltà, ma
a partire dalla consapevolezza che “l’ibrido non può cancellare le tensioni che
la disuguaglianza continua a produrre” (Cassano 2007, 93), per seguire un
itinerario alternativo, una sorta di “doppio movimento” dall’uguaglianza alla libertà
e ritorno.
In questa cornice, il
nostro “autore”, che non si riconosce come tale perché sono i protagonisti
delle storie che racconta ad assottigliare lo spazio autorale di chi scrive
(sono loro, dichiara, “i protagonisti, la forma” del libro), somiglia piuttosto
all’etnografo, al testimone “scoperto” per i suoi compagni di viaggio e di
“quotidianità rivoluzionaria”, che partecipa osservando quanto accade e
ascoltando ciò che se ne dice; una esperienza sul campo che si fa etnografia
della rivoluzione e della protesta. Un approccio “sociologico” che rivela la
sua contaminazione con il codice della letteratura. Se “la letteratura crea
almeno in parte la realtà che descrive” (Jedlowski 2010, 27) ed i romanzieri si
occupano del “possibile”, la scienza “documenta”, spiega ciò che descrive,
occupandosi di ciò che accade. Nello scritto di Solera troviamo l’intreccio tra
le due dimensioni; non una realtà
romanzata, ma una serie di racconti e di testimonianze di ciò che accade e che
è accaduto (nel “mondo arabo” e tra le due sponde del Mediterraneo), della
capacità di immaginare nuove opportunità di mobilitazione, oltre le gabbie
concettuali precostituite. Ed allora Solera racconta di una inedita “geografia
della liberazione” che si intreccia con la geografia spaziale del Mediterraneo;
un Mediterraneo allargato nella sua visione de-confinata, che comprende la
Palestina e la Val di Susa, la Spagna e la Grecia, i Balcani e l’Egitto, di
“migrazione in migrazione” degli spazi politici. È questa la geografia delle
“piazze”, nuove agorà nell’era della
globalizzazione, sempre più spesso “occupate” fisicamente e connesse tra loro
digitalmente (da Tahrīr, a Syntagma in Grecia, a Puerta del Sol in Spagna). Per
orientarsi in questa geografia non servono mappe quanto itinerari di viaggio;
il movimento viene guidato da suoni, colori, situazioni, persone, forme d’arte.
Così, ad esempio, i suoni sono quelli del cancello del Centro di primo soccorso
e prima accoglienza di Lampedusa, in un giorno di “rivolta” dei migranti-detenuti
di contrada Imbriacola: “bip, bip, bip,
bip”, un suono scarno ma penetrante
che fa da colonna sonora al quotidiano fronteggiarsi di “due eserciti”, quello
dei volontari e degli attivisti per i diritti degli immigrati e quello delle
“Forze dell’ordine” (p. 122); uno a sostegno di un’idea di “mobilità umane”
libere e molteplici, l’altro come agente di “sorveglianza” della “sicurezza”
delle frontiere del primo mondo. E ancora, entrano in scena i colori del
“riscatto” mediterraneo, come l’arcobaleno delle magliette del movimento degli Indignados spagnoli; così, “il verde rappresenta l’istruzione, il bianco
simboleggia la salute, l’arancione la gioventù, l’azzurro l’acqua […] tanti
colori per un gruppo senza leader” (p. 180). “Rosa” è invece la “lotta per la
dignità e la libertà, oltre le frontiere degli Stati e delle nazioni” (p. 355).
Questa dinamica transnazionale della liberazione si incammina sulle gambe delle
donne, nella terra delle Primavere arabe e
altrove, in tutto il mondo. Questa è anche la storia di Vērā Bābun, la
prima donna eletta sindaco nella città di Betlemme (il 13 novembre 2012), la
seconda in tutta la Palestina. Sì, perché la “primavera araba è di sesso
femminile”: donne palestinesi, egiziane, tunisine – e non solo – “resistenti” e
“resilienti” sulla strada della rivoluzione. Rosa è anche il colore degli
elefanti raccontati da José Saramago nella novella A viagem do elefante; Solera ne parla con Miguel Torres, artista e
attivista portoghese, che così descrive la sua nuova produzione di teatro
comunitario di strada, “ispirata al viaggio di un elefante da Lisbona a Vienna,
dono del re Joăo III all’imperatore Maximilian II […] il viaggio si conclude
con la morte dell’elefante, un anno dopo essere arrivato in quella landa
fredda. L’elefante era rosa, rosa è la nostra lotta per la dignità e la
libertà, oltre le frontiere degli Stati e delle nazioni” (p. 354). Anche l’arte
dunque entra in scena in questo racconto; ed allora il LampedusaInFestival, Valsusa
Filmfest, il SubversiveFestival
di Zagabria, il Teatro Valle Bene Comune a Roma, il teatro Pinelli a Messina, sono
alcuni esempi di forme di occupazione dello spazio pubblico e di produzione del
“discorso pubblico”, a partire da pratiche di auto-organizzazione e condivisione
negli ambiti di azione collettiva.
“Contro-egemonica” è
quindi la tensione critica di chi racconta in questo scritto: testimone
privilegiato non solo delle storie che narra ma anche, con esse, del fallimento
delle rappresentazioni culturali e politiche del Mediterraneo, sin qui egemoni.
A cominciare dalla “politica” della
interculturalità qualora si svuoti di “senso” perseguendo un dialogo che si fa
paradossale perché autoreferenziale. Già, perché Solera non avrebbe potuto
scrivere di queste storie mediterranee se non avesse lasciato la Fondazione Anna
Lindh (nome questo tristemente noto nella casistica delle vittime della “intolleranza”
per la convivenza tra “culture” diverse, vittima di una visione claustrofobica
del mondo e della sua complessa trama culturale). La FAL dunque, una importante
e per tanti versi meritoria fondazione che ha contributo a sviluppare la
geografia organizzativa delle reti di società civile nella regione
“euro-mediterranea”, ma che sembra non essersi del tutto sottratta alla
trappola dell’orientalismo; la dinamica del riscatto dunque riguarda anche la postura
retorica che spesso ha alimentato l’istituzionalizzazione del dialogo
interculturale secondo il copione eurocentrico, persino neocoloniale, del
“partenariato Euromediterrano”. Nel gergo istituzionale dell’Unione europea
questa forma di “cooperazione intergovernativa” si era data l’obiettivo di
costruire uno spazio di libertà ed eguaglianza anche per la “sponda Sud”
dell’Europa dopo aver “riconquistato” allo spazio della democrazia e del
capitalismo, i paesi dell’ex blocco sovietico. Peccato però che lo spazio di
“libertà, sicurezza, giustizia” abbia aperto frontiere e confini per la
“circolazione” dei capitali e delle élites transnazionali ed alzato muri e prigioni,
di cemento o d’acqua, entro cui far languire o annegare, lungo tutto il
Mediterraneo, migliaia di migranti, sancendo, con la clandestinizzazione di una
parte dell’umanità, nuove e reiterate forme di asimmetria e disuguaglianza
“globali”. Contro un modello “buffer zone” (annota Solera raccontando la
vicenda di un movimento – Occupy the
Buffer Zone – che occupò, appunto, per
alcuni mesi la zona interstiziale a Cipro tra l’area turca e quella greca nel 2011),
ovvero contro una visione dell’intero Mediterraneo reso zona interstiziale tra
popoli affinché le “relazioni di potere possano rimanere le stesse” (p. 19), e
cioè asimmetriche, è possibile disegnare i contorni di un’utopia
realizzabile, immaginare cioè una
riscrittura dello spazio politico a partire dal basso, dall’auto-organizzazione
e dalle lotte di quanti vogliono riappropriarsi del proprio destino politico. Con
la primavera araba, commenta Solera, “ci siamo resi conto che il problema, la
sorgente delle divisioni e delle tensioni non era il fatto che fossimo diversi,
con identità religiose e culturali diverse, bensì erano gli squilibri nelle
garanzie cittadine, le differenze nell’accesso ai diritti sociali, economici,
politici e ambientali […]. Lo scontro vero non è tra cristiani o musulmani,
secolari o religiosi, bensì tra ricchi e poveri, potenti e oppressi” (Solera
2013, 342). Bisogna uscire in altre parole dalla trappola della
“culturalizzazione della politica” e ritematizzare le questioni della
diseguaglianza e delle ingiustizie sociali.
I paesi della “sponda
Sud” del Mediterraneo ovvero il “mondo arabo”, hanno incarnato, nei rapporti
con l’Europa, il modello – costitutivamente iniquo – dello “scambio ineguale”,
economico e politico; l’Occidente ha cioè scambiato con i paesi di questa parte
del globo sicurezza e fonti energetiche al
prezzo della privazione di libertà e democrazia, attraverso la
permanenza di regimi autoritari e di un’economia della rendita, a sostegno della propria egemonia nella
regione. La Buffer zone è stata a
lungo costituita da regimi autocratici, ora “in transizione”, regolatori di
flussi, economici ed umani. “Le” primavere arabe hanno messo in questione
questo modello e riaperto, almeno in parte, i giochi: nei rapporti tra Nord e Sud
e, a Sud, tra diversi “modelli” di stato e di politica: laico-secolare, versus confessionale-religioso, conservatore-reazionario
versus libertario e democratico,
diversamente incarnati dai diversi “attori” regionali (Arabia Saudita e Iran,
Turchia e Siria, Egitto e Libia) e, in prospettiva, dagli stati “rentier” arruolati nel regime economico neoliberale, a forme di
economia sostenibile. Alcuni di questi paesi stanno oggi giocando la partita
della “transizione” di regime dalle autocrazie (più o meno chiuse e illiberali),
verso forme di “democrazia” o di “pseudo-democrazia”, quando il mutamento di
regime lascia più o meno immutati i sistemi di potere esistenti. La galassia
dell’Islam politico nella sua duplice articolazione, nazionale e
transnazionale, è anche il teatro principale in cui ha luogo il conflitto per l’egemonia
dei soggetti collettivi nello spazio pubblico-politico: in Tunisia e in Egitto,
in Libia (la terra dell’ennesimo intervento armato occidentale dove è ancora di
là da venire una piena pacificazione tra forze politiche che guidano la
transizione ed i lealisti di Gheddafi, e dove la guerra tra milizie
contrapposte ha sostituito l’ordine autocratico) ed in Siria (dilaniata dalla terribile
violenza della guerra civile), si gioca la partita doppia dell’affermazione
dell’Islam moderato o di quello estremista da una parte, e della conquista del
ruolo di stato egemone nella regione. La Fratellanza musulmana in Egitto (e le sue
propaggini libiche) ed Ennhada in Tunisia,
esprimono un possibile modello di Islam sunnita moderato ma alle prese con le
correnti salafite conservatrici estremiste e con le reti terroristiche (in
Egitto in Sinai, in Tunisia ed in Libia, ed in altri paesi del Maghreb-Mashreq).
Il “gioco delle parti” si fa complesso e stratificato; così in Egitto il “primo
movimento” della rivoluzione è quello dei movimenti di piazza Tahrīr (25
gennaio 2011). Una volta cacciato il tiranno Mubarak, la controrivoluzione dei generali non tarda ad
affermarsi ed ecco che il secondo movimento rivoluzionario vede di nuovo in
scena la protesta e l’occupazione della “piazza”. Il voto e la vittoria della
Fratellanza musulmana segnano un punto a vantaggio della transizione verso la
democrazia “elettorale” ma la società politica e civile egiziana non sono per
nulla pacificate. L’esperimento del governo a guida della Fratellanza musulmana
con Mursī presidente, fallisce per una serie di “errori politici”: la chiusura
verso alleanze politiche con le forze liberali, la sfida al potere
dell’esercito che, da Nasser a Mubarak, ha costituito lo “Stato profondo” in
Egitto, l’aver lasciato spazio all’influenza delle correnti islamiche
estremiste, i fallimenti nella gestione dell’economia. Mentre le forze salafite
giocano di sponda tra i Fratelli e l’esercito, sul fronte esterno l’asse
Egitto-ribelli siriani (nel complesso mondo sunnita) si spezza con la caduta di
Mursī; si consuma così il terzo movimento della rivoluzione ed anche questa
volta, nell’estate appena trascorsa, entra in scena la piazza, mobilitando
trenta milioni di egiziani a difesa del pluralismo e la laicità dello stato,
contro la crisi economica, contro l’egemonia della Fratellanza. Golpe militare
o rivoluzione (violenza e vittime si ripetono come per il primo movimento), con
la deposizione di Mursī il 3 luglio del 2013, viene segnato un punto di svolta
nella primavera egiziana che rischia di rivelarsi un déjà-vu infinito (con la messa al bando della Fratellanza come ai
tempi di Nasser prima e di Mubarak poi). L’Islam politico in Tunisia, dove la Primavera
araba nasce nel dicembre 2010, dopo gli
omicidi politici di leaders del mondo politico progressista, sembra poter
superare l’impasse politica solo a
partire da una presa di distanza dai gruppi religiosi estremisti di matrice
salafita, da parte del partito islamico al governo Ennhada. Sul destino dell’Islam politico si interroga Solera nel suo
racconto delle rivoluzioni, chiedendosi “chi riscatterà l’Islam politico?” (p.
125). La risposta, per quanto riguarda il chi, può essere trovata nella società
civile, nelle giovani generazioni. Il “quando” è legato ai possibili frutti del
lavoro per “l’integrazione dei musulmani nella lotta sociale altermondialista”
(p. 147); quando l’Occidente smetterà di usare l’Islam politico come pedina per
i propri interessi, quando la Sinistra europea “che ha posizioni progressiste
in economia, ma reazionarie in politica” smetterà di “ostracizzare”
sistematicamente “quella parte dell’Islam politico pronta a rimettere in
discussione il suo discorso economico” (p. 145); qui Solera fa parlare Tāreq
Ramadhān, intellettuale egiziano, nipote del fondatore della Fratellanza, formatosi
in Europa, presentato all’opinione pubblica occidentale come ‘illuminato’ ma anche come controverso esponente di un
Islam ‘progressista’.
Nella trama narrativa del
resoconto di viaggio, gli episodi di lotta e di resistenza si susseguono
cambiando scenari e personaggi. Nel reticolo di eventi emblematici ed
eclatanti, sequenze e inquadrature sulla “realtà” in successione, la prima
scena si apre su di un Internet caffè egiziano in Alessandria di Egitto, sette
mesi prima della Primavera araba; è una scena di una violenza inaudita
consumatasi nel giugno del 2010 con l’omicidio del ventottenne attivista Khāled
Sa’īd (aveva denunciato la corruzione
della polizia locale) e che già “dice” molto dei protagonisti della
“rivoluzione”: la polizia corrotta, i giovani, il web, la blogosfera, spazi e
interstizi per la ri-costruzione della sfera pubblica democratica, nei luoghi –
tanti e diffusi “globalmente” ad Est come ad Ovest –in cui essa viene negata dai poteri
autocratici. Tutti episodi dunque di un “viaggio letterario” apparentemente
slegati perché multiformi e multivocali, ma legati dalla come “lotta” per il
“pane, la libertà, la giustizia”. Il secondo episodio tratto dal “diario
alessandrino” (in Egitto dove Solera vive), racconta dell’esperienza diretta
della rivoluzione, quando, in preda al panico, minacciato da un gruppo di
giovani nostalgici di Mubarak, Solera rinnega tre volte (come nell’episodio
evangelico, rammenta) la propria identità, mentendo sulla propria nazionalità,
sulla propria identità, sulla propria attività. È di scena la paura. Segue
quindi il racconto libico, ambientato prevalentemente nelle prigioni, dove
Solera incontra e ascolta gli ex lealisti di Gheddafi: racconti di mercenari, ancora protagonisti di
una Libia “in transizione”, in attesa di una Costituzione non più provvisoria,
endemicamente in deficit di “sicurezza”. È la volta della Siria, raccontata dai
campi profughi che la circondano (in Turchia, Iraq, Libano), dal fronte dei
ribelli dell’esercito siriano di liberazione, e, poi, da Padre Dall’Oglio
(tuttora disperso), che lavora per “unire l’opposizione siriana e partecipare
al progetto costituzionale per una democrazia consensuale” (p. 350), strappando
sia al “dittatore” Assad che ai terroristi, il controllo del paese. La realpolitik internazionale ha evitato
sinora un attacco esterno – scongiurando peraltro lo schema dell’intervento
umanitario che tanta parte ha avuto sin qui nel delegittimare la pratica della
esportazione della democrazia “sulla punta delle baionette” – osteggiato principalmente da Russia e Cina (i
mesi estivi appena trascorsi sono stati decisivi), e distrutto le “armi chimiche” grazie ad un
accordo della comunità internazionale, ma l’orizzonte della democrazia, al
momento, sembra ancora lontano.
Entro questa complessa
cornice dunque si colloca la Primavera araba (ed il suo effetto domino
nell’intera regione medio-orientale e nord-africana), la madre di tutti gli
eventi “rivoluzionari” in questa nostra epoca globale nata all’insegna del
“post”: post-moderna, post-fordista, post-guerra fredda, post-coloniale, e,
paradossalmente, post-democratica. Ma il riscatto mediterraneo, che ne è parte,
è fatto anche di altre lotte e pratiche di resistenza per la dignità e la
libertà, di protesta e “ri-occupazione” dello spazio pubblico, per reagire alle
forme sempre più diffuse di “rimozione”, “ideologica” e materiale (insieme ai
manifestanti che li occupano) degli spazi comuni, sull’onda lunga delle mobilitazioni,
da Est (la rivoluzione arancione in Ucraina) ad Ovest (gli Indignados in Spagna, da Sud (la rivoluzione verde in Iran, la
Grecia contro l’austerity neoliberale)
a Nord (Occupy Wall Street negli
Stati Uniti, Blockoccupy a
Francoforte). E persino, in Israele, terra dell’“occupante”, dal 2010 nascono
forme di occupazione contro la corruzione, il governo neoliberista
dell’economia, la concentrazione della ricchezza in poche mani, per la
giustizia sociale (pp. 236-49). Una reinvenzione della politica a partire da
forme di “auto-organizzazione” e partecipazione per la produzione e difesa di
“beni comuni”, per la ridefinizione dello spazio pubblico. Sembra aprirsi qui un
paesaggio arendtiano della politica intesa come “natalità”, come libertà di
“iniziare una nuova serie nel tempo”. Per questa via dunque passa la
ricostruzione di forme di democrazia partecipativa, complementare e – nel lungo periodo – alternativa alla
democrazia rappresentativa, sempre più spesso sclerotizzata nel suo
funzionamento, messa in crisi dalla tecnocrazia e dagli imperativi economici
neoliberisti. Tuttavia, la “fiducia” nella capacità dei movimenti collettivi di
rivitalizzare la democrazia non sempre è condivisa; sconta infatti una sorta di
scetticismo sulle reali possibilità di costruire una domanda collettiva
altrettanto inclusiva di quella emersa con la lotta di classe e i grandi
partiti di massa. Quali che siano le “reali” possibilità di una nuova forma di
“emancipazione”, nuovi soggetti politici possono agire in società più
complesse, in cui il potere politico ed economico si fa transnazionale; ed a
questo livello, transnazionale e translocale, le “reti” di movimento spostano
il terreno di lotta.
La reinvenzione della
democrazia passa anche per la costruzione degli “utensili del riscatto” (p.
297); “breviari del combattente” vengono utilizzati da Anonymous ai movimenti di piazza Tahrīr, in Val di Susa e nei
Balcani, nella lotta contro i “poteri egemonici”, politici, economici, culturali.
Contaminazioni e punti in comune delle forme di lotta consistono nel principio
della nonviolenza intesa non come “sottomissione passiva al sopruso (per
esempio l’uso dei gas ormai sempre più diffuso tra le forze di polizia in tutto
il Mediterraneo, dall’Egitto, alla Grecia, alla Val di Susa, alla Turchia), ma
come forma energica di lotta e di gestione dei conflitti”; nel principio
dell’autocontrollo (ordine, disciplina, sistematicità, puntualità); nella
diffidenza verso ogni forma di personalismo tra i compagni di lotta; nell’uso di
forme di linguaggio semplice, “trasmissibile e condivisibile”; nell’importanza
del numero dal momento che “si può iniziare in pochi ma si deve finire in
molti” (p. 308). In quest’ottica nelle pagine del resoconto delle lotte è
possibile ritrovare esempi di una geografia della liberazione applicata “qui ed
ora”. È a Belgrado che ha sede CANVAS,
il Centro per l’applicazione di strategie di azione non violente, dove si
insegna a tener presente la visione che ispira la lotta, “per capire quanta
strada ci sia ancora” (p. 313) e per non lasciare “che le nuove élites facciano
ciò che vogliono quando cade il dittatore”. Ancora da Belgrado arriva il
manuale, tradotto in arabo, approntato anche con l’obiettivo di “lavorare con
la Siria”, in cui si spiega “come
rendere l’oppressione controproducente”, (p. 317). E ancora da Belgrado arriva
il termine Laughtivism, utilizzato
“per definire l’azione politica attraverso l’ilarità con un obiettivo chiaro:
imbarazzare [i regimi]” (p. 318). Con Civitas
Academy nella Striscia di Gaza lavorano invece diversi attivisti arabi per
“insegnare la democrazia ai giovani della regione” (p. 319). In questa varietà
di modi dunque, svolgono la loro funzione “maestri e mecenati della resistenza”
(p. 317).
Nella pedagogia per la
reinvenzione democratica sembra delinearsi una sorta di “microfisica
dell’emancipazione”, a partire dalla dimensione locale per una riscrittura dei
modelli di sviluppo. Strategie “lillupuziane” contro la logica applicata delle
grandi opere sono in atto, ad esempio, in Val di Susa, dove si sperimenta una
riappropriazione del sapere tecnico contro la tecnocrazia neoliberista; al Presidio Europa, il forum europeo “contro le
grandi opere inutili e imposte” fanno riferimento molti attivisti (p. 218), non
semplicemente per opporsi alla realizzazione di opere di “pubblica utilità”
proprio nel cortile di casa
(sindrome NIMBY, Not in My Backyard) ma con l’obiettivo
più ampio di proporre un modello alternativo di sviluppo e di utilizzo del
territorio.
Il “sogno” mediterraneo
di libertà, dignità e giustizia, è resiliente: resiste e si riaffaccia
all’orizzonte, anche quando, come in questo momento, “l’autunno” della
controrivoluzione si è avvicendato alla primavera della rivoluzione; il
“Rinascimento che verrà non è una chimera” (p. 357). Per questo Solera pensa ad
una chiave di lettura unitaria che accomuni le espressioni della protesta
sociale tra le due rive del Mediterraneo: “l’occupazione e la riappropriazione
degli spazi pubblici, la creazione di strutture spontanee e volontarie di
assistenza e sostegno alla popolazione, la diffidenza nei confronti dei
meccanismi della rappresentanza istituzionale, la denuncia della collusione tra
classe politica e gruppi di interesse economico, la lotta contro la corruzione
e l’espropriazione delle risorse a vantaggio dei pochi, la richiesta di “pane,
libertà e giustizia sociale” […] di beni comuni, democrazia e eguaglianza
solidale, la mobilitazione attraverso la messa in rete, le relazioni
interpersonali o i social media, la società civile quale guardiana dei principi
costituzionali e delle responsabilità democratiche, la necessità di andare
oltre le frontiere, di guardare oltre gli steccati nazionali o culturali, un
forte senso della dignità e della pratica del rispetto nel rifiuto delle
divisioni identitarie” (pp. 13-14). Da questo “decalogo” occorre partire, secondo l’autore, per la
costruzione di un neo-transnazionalismo politico e culturale “dal basso”,
superando le retoriche della globalizzazione (dal cosmopolitismo delle élites
globali, alla transnazionalizzazione neoliberista dell’economia). Attingendo
alla capacità evocativa del termine ‘Rinascimento’ nell’immaginario collettivo,
Solera si dice “certo” che “il Mediterraneo sarà sorgente di un rinnovato
ottimismo;” ma ciò a patto di “non lasciare il Mediterraneo agli altri.
Impossessiamocene, senza aver timore di combattere dove si combatte, di alzare
la voce dove si protesta, e di deciderci dove si decide” (p. 374).
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