martedì 3 dicembre 2013

Lidia Lo Schiavo (Università di Messina) recensisce l'ultimo lavoro di Gianluca Solera




 Solera G. (2013),  Riscatto mediterraneo. Voci e luoghi di dignità e resistenza, Nuovadimensione, Venezia, (pp. 7-377).
 


Certo, le storie sono fatte di parole ma ci sono due modi di comunicare, attraverso le parole (tutte “perfette”, “eguali”),  e attraverso le storie (“imperfette”, “diverse”); così accade che ilracconto ecceda la linearità del “discorso” nel ricostruire il “percorso” dell’esperienza vissuta che quindi “si compie quando viene narrata” (Jedlowski, 2009). Questo probabilmente l’auspicio dell’«autore» – Gianluca Solera – meglio, di chi “narra” affinché l’esperienza (di colui che ascolta e guarda, osserva e condivide con i “testimoni” degli eventi che narra, emozioni, sentimenti, conoscenze, azioni) costituisca un contributo per una “utopia” condivisa: il riscatto del Mediterraneo, la “madre di tutte le battaglie” nell’orizzonte “glocale” delle “lotte” per il “pane, la libertà, la giustizia”. Sì, ancora una volta il Mediterraneo come modello, come “paradigma” per le ragioni che “storicamente” – pensiamo a Braudel – lo connotano come “pluriverso”, possibile cifra di un “cosmopolitismo discrepante” e “critico”, situato e contingente. Mediterraneo come “contesto” ermeneutico in cui decostruire il “testo” dei fondamentalismi, culturali e politici certo, ma anche, ci ricorda Solera, il “fondamentalismo” economico neoliberista, che di questo tempo storico si è fatto cornice egemonica. Il Mediterraneo dunque e l’ibridazione culturale: contro la retorica dello scontro di civiltà, ma a partire dalla consapevolezza che “l’ibrido non può cancellare le tensioni che la disuguaglianza continua a produrre” (Cassano 2007, 93), per seguire un itinerario alternativo, una sorta di “doppio movimento” dall’uguaglianza alla libertà e ritorno.
In questa cornice, il nostro “autore”, che non si riconosce come tale perché sono i protagonisti delle storie che racconta ad assottigliare lo spazio autorale di chi scrive (sono loro, dichiara, “i protagonisti, la forma” del libro), somiglia piuttosto all’etnografo, al testimone “scoperto” per i suoi compagni di viaggio e di “quotidianità rivoluzionaria”, che partecipa osservando quanto accade e ascoltando ciò che se ne dice; una esperienza sul campo che si fa etnografia della rivoluzione e della protesta. Un approccio “sociologico” che rivela la sua contaminazione con il codice della letteratura. Se “la letteratura crea almeno in parte la realtà che descrive” (Jedlowski 2010, 27) ed i romanzieri si occupano del “possibile”, la scienza “documenta”, spiega ciò che descrive, occupandosi di ciò che accade. Nello scritto di Solera troviamo l’intreccio tra le due dimensioni;  non una realtà romanzata, ma una serie di racconti e di testimonianze di ciò che accade e che è accaduto (nel “mondo arabo” e tra le due sponde del Mediterraneo), della capacità di immaginare nuove opportunità di mobilitazione, oltre le gabbie concettuali precostituite. Ed allora Solera racconta di una inedita “geografia della liberazione” che si intreccia con la geografia spaziale del Mediterraneo; un Mediterraneo allargato nella sua visione de-confinata, che comprende la Palestina e la Val di Susa, la Spagna e la Grecia, i Balcani e l’Egitto, di “migrazione in migrazione” degli spazi politici. È questa la geografia delle “piazze”, nuove agorà nell’era della globalizzazione, sempre più spesso “occupate” fisicamente e connesse tra loro digitalmente (da Tahrīr, a Syntagma in Grecia, a Puerta del Sol in Spagna). Per orientarsi in questa geografia non servono mappe quanto itinerari di viaggio; il movimento viene guidato da suoni, colori, situazioni, persone, forme d’arte. Così, ad esempio, i suoni sono quelli del cancello del Centro di primo soccorso e prima accoglienza di Lampedusa, in un giorno di “rivolta” dei migranti-detenuti di contrada Imbriacola: “bip, bip, bip, bip”, un suono scarno ma penetrante che fa da colonna sonora al quotidiano fronteggiarsi di “due eserciti”, quello dei volontari e degli attivisti per i diritti degli immigrati e quello delle “Forze dell’ordine” (p. 122); uno a sostegno di un’idea di “mobilità umane” libere e molteplici, l’altro come agente di “sorveglianza” della “sicurezza” delle frontiere del primo mondo. E ancora, entrano in scena i colori del “riscatto” mediterraneo, come l’arcobaleno delle magliette del movimento degli Indignados spagnoli; così,  “il verde rappresenta l’istruzione, il bianco simboleggia la salute, l’arancione la gioventù, l’azzurro l’acqua […] tanti colori per un gruppo senza leader” (p. 180). “Rosa” è invece la “lotta per la dignità e la libertà, oltre le frontiere degli Stati e delle nazioni” (p. 355). Questa dinamica transnazionale della liberazione si incammina sulle gambe delle donne, nella terra delle Primavere arabe e  altrove, in tutto il mondo. Questa è anche la storia di Vērā Bābun, la prima donna eletta sindaco nella città di Betlemme (il 13 novembre 2012), la seconda in tutta la Palestina. Sì, perché la “primavera araba è di sesso femminile”: donne palestinesi, egiziane, tunisine – e non solo – “resistenti” e “resilienti” sulla strada della rivoluzione. Rosa è anche il colore degli elefanti raccontati da José Saramago nella novella A viagem do elefante; Solera ne parla con Miguel Torres, artista e attivista portoghese, che così descrive la sua nuova produzione di teatro comunitario di strada, “ispirata al viaggio di un elefante da Lisbona a Vienna, dono del re Joăo III all’imperatore Maximilian II […] il viaggio si conclude con la morte dell’elefante, un anno dopo essere arrivato in quella landa fredda. L’elefante era rosa, rosa è la nostra lotta per la dignità e la libertà, oltre le frontiere degli Stati e delle nazioni” (p. 354). Anche l’arte dunque entra in scena in questo racconto; ed allora il LampedusaInFestival, Valsusa Filmfest, il SubversiveFestival di Zagabria, il Teatro Valle Bene Comune a Roma, il teatro Pinelli a Messina, sono alcuni esempi di forme di occupazione dello spazio pubblico e di produzione del “discorso pubblico”, a partire da pratiche di auto-organizzazione e condivisione negli ambiti di azione collettiva.
“Contro-egemonica” è quindi la tensione critica di chi racconta in questo scritto: testimone privilegiato non solo delle storie che narra ma anche, con esse, del fallimento delle rappresentazioni culturali e politiche del Mediterraneo, sin qui egemoni. A cominciare dalla  “politica” della interculturalità qualora si svuoti di “senso” perseguendo un dialogo che si fa paradossale perché autoreferenziale. Già, perché Solera non avrebbe potuto scrivere di queste storie mediterranee se non avesse lasciato la Fondazione Anna Lindh (nome questo tristemente noto nella casistica delle vittime della “intolleranza” per la convivenza tra “culture” diverse, vittima di una visione claustrofobica del mondo e della sua complessa trama culturale). La FAL dunque, una importante e per tanti versi meritoria fondazione che ha contributo a sviluppare la geografia organizzativa delle reti di società civile nella regione “euro-mediterranea”, ma che sembra non essersi del tutto sottratta alla trappola dell’orientalismo; la dinamica del riscatto dunque riguarda anche la postura retorica che spesso ha alimentato l’istituzionalizzazione del dialogo interculturale secondo il copione eurocentrico, persino neocoloniale, del “partenariato Euromediterrano”. Nel gergo istituzionale dell’Unione europea questa forma di “cooperazione intergovernativa” si era data l’obiettivo di costruire uno spazio di libertà ed eguaglianza anche per la “sponda Sud” dell’Europa dopo aver “riconquistato” allo spazio della democrazia e del capitalismo, i paesi dell’ex blocco sovietico. Peccato però che lo spazio di “libertà, sicurezza, giustizia” abbia aperto frontiere e confini per la “circolazione” dei capitali e delle élites transnazionali ed alzato muri e prigioni, di cemento o d’acqua, entro cui far languire o annegare, lungo tutto il Mediterraneo, migliaia di migranti, sancendo, con la clandestinizzazione di una parte dell’umanità, nuove e reiterate forme di asimmetria e disuguaglianza “globali”. Contro un modello “buffer zone” (annota Solera raccontando la vicenda di un movimento – Occupy the Buffer Zone –  che occupò, appunto, per alcuni mesi la zona interstiziale a Cipro tra l’area turca e quella greca nel 2011), ovvero contro una visione dell’intero Mediterraneo reso zona interstiziale tra popoli affinché le “relazioni di potere possano rimanere le stesse” (p. 19), e cioè asimmetriche, è possibile disegnare i contorni di un’utopia realizzabile,  immaginare cioè una riscrittura dello spazio politico a partire dal basso, dall’auto-organizzazione e dalle lotte di quanti vogliono riappropriarsi del proprio destino politico. Con la primavera araba, commenta Solera, “ci siamo resi conto che il problema, la sorgente delle divisioni e delle tensioni non era il fatto che fossimo diversi, con identità religiose e culturali diverse, bensì erano gli squilibri nelle garanzie cittadine, le differenze nell’accesso ai diritti sociali, economici, politici e ambientali […]. Lo scontro vero non è tra cristiani o musulmani, secolari o religiosi, bensì tra ricchi e poveri, potenti e oppressi” (Solera 2013, 342). Bisogna uscire in altre parole dalla trappola della “culturalizzazione della politica” e ritematizzare le questioni della diseguaglianza e delle ingiustizie sociali.
I paesi della “sponda Sud” del Mediterraneo ovvero il “mondo arabo”, hanno incarnato, nei rapporti con l’Europa, il modello – costitutivamente iniquo – dello “scambio ineguale”, economico e politico; l’Occidente ha cioè scambiato con i paesi di questa parte del globo sicurezza e fonti energetiche al  prezzo della privazione di libertà e democrazia, attraverso la permanenza di regimi autoritari e di un’economia della rendita,  a sostegno della propria egemonia nella regione. La Buffer zone è stata a lungo costituita da regimi autocratici, ora “in transizione”, regolatori di flussi, economici ed umani. “Le” primavere arabe hanno messo in questione questo modello e riaperto, almeno in parte, i giochi: nei rapporti tra Nord e Sud e, a Sud, tra diversi “modelli” di stato e di politica: laico-secolare, versus confessionale-religioso, conservatore-reazionario versus libertario e democratico, diversamente incarnati dai diversi “attori” regionali (Arabia Saudita e Iran, Turchia e Siria, Egitto e Libia) e, in prospettiva, dagli stati “rentier” arruolati  nel regime economico neoliberale, a forme di economia sostenibile. Alcuni di questi paesi stanno oggi giocando la partita della “transizione” di regime dalle autocrazie (più o meno chiuse e illiberali), verso forme di “democrazia” o di “pseudo-democrazia”, quando il mutamento di regime lascia più o meno immutati i sistemi di potere esistenti. La galassia dell’Islam politico nella sua duplice articolazione, nazionale e transnazionale, è anche il teatro principale in cui ha luogo il conflitto per l’egemonia dei soggetti collettivi nello spazio pubblico-politico: in Tunisia e in Egitto, in Libia (la terra dell’ennesimo intervento armato occidentale dove è ancora di là da venire una piena pacificazione tra forze politiche che guidano la transizione ed i lealisti di Gheddafi, e dove la guerra tra milizie contrapposte ha sostituito l’ordine autocratico) ed in Siria (dilaniata dalla terribile violenza della guerra civile), si gioca la partita doppia dell’affermazione dell’Islam moderato o di quello estremista da una parte, e della conquista del ruolo di stato egemone nella regione. La Fratellanza musulmana in Egitto (e le sue propaggini libiche) ed Ennhada in Tunisia, esprimono un possibile modello di Islam sunnita moderato ma alle prese con le correnti salafite conservatrici estremiste e con le reti terroristiche (in Egitto in Sinai, in Tunisia ed in Libia, ed in altri paesi del Maghreb-Mashreq). Il “gioco delle parti” si fa complesso e stratificato; così in Egitto il “primo movimento” della rivoluzione è quello dei movimenti di piazza Tahrīr (25 gennaio 2011). Una volta cacciato il tiranno Mubarak,  la controrivoluzione dei generali non tarda ad affermarsi ed ecco che il secondo movimento rivoluzionario vede di nuovo in scena la protesta e l’occupazione della “piazza”. Il voto e la vittoria della Fratellanza musulmana segnano un punto a vantaggio della transizione verso la democrazia “elettorale” ma la società politica e civile egiziana non sono per nulla pacificate. L’esperimento del governo a guida della Fratellanza musulmana con Mursī presidente, fallisce per una serie di “errori politici”: la chiusura verso alleanze politiche con le forze liberali, la sfida al potere dell’esercito che, da Nasser a Mubarak, ha costituito lo “Stato profondo” in Egitto, l’aver lasciato spazio all’influenza delle correnti islamiche estremiste, i fallimenti nella gestione dell’economia. Mentre le forze salafite giocano di sponda tra i Fratelli e l’esercito, sul fronte esterno l’asse Egitto-ribelli siriani (nel complesso mondo sunnita) si spezza con la caduta di Mursī; si consuma così il terzo movimento della rivoluzione ed anche questa volta, nell’estate appena trascorsa, entra in scena la piazza, mobilitando trenta milioni di egiziani a difesa del pluralismo e la laicità dello stato, contro la crisi economica, contro l’egemonia della Fratellanza. Golpe militare o rivoluzione (violenza e vittime si ripetono come per il primo movimento), con la deposizione di Mursī il 3 luglio del 2013, viene segnato un punto di svolta nella primavera egiziana che rischia di rivelarsi un déjà-vu infinito (con la messa al bando della Fratellanza come ai tempi di Nasser prima e di Mubarak poi).  L’Islam politico in Tunisia, dove la Primavera araba nasce nel dicembre 2010,  dopo gli omicidi politici di leaders del mondo politico progressista, sembra poter superare l’impasse politica solo a partire da una presa di distanza dai gruppi religiosi estremisti di matrice salafita, da parte del partito islamico al governo Ennhada. Sul destino dell’Islam politico si interroga Solera nel suo racconto delle rivoluzioni, chiedendosi “chi riscatterà l’Islam politico?” (p. 125). La risposta, per quanto riguarda il chi, può essere trovata nella società civile, nelle giovani generazioni. Il “quando” è legato ai possibili frutti del lavoro per “l’integrazione dei musulmani nella lotta sociale altermondialista” (p. 147); quando l’Occidente smetterà di usare l’Islam politico come pedina per i propri interessi, quando la Sinistra europea “che ha posizioni progressiste in economia, ma reazionarie in politica” smetterà di “ostracizzare” sistematicamente “quella parte dell’Islam politico pronta a rimettere in discussione il suo discorso economico” (p. 145); qui Solera fa parlare Tāreq Ramadhān, intellettuale egiziano, nipote del fondatore della Fratellanza, formatosi in Europa, presentato all’opinione pubblica occidentale come ‘illuminato’  ma anche come controverso esponente di un Islam ‘progressista’.
Nella trama narrativa del resoconto di viaggio, gli episodi di lotta e di resistenza si susseguono cambiando scenari e personaggi. Nel reticolo di eventi emblematici ed eclatanti, sequenze e inquadrature sulla “realtà” in successione, la prima scena si apre su di un Internet caffè egiziano in Alessandria di Egitto, sette mesi prima della Primavera araba; è una scena di una violenza inaudita consumatasi nel giugno del 2010 con l’omicidio del ventottenne attivista Khāled Sa’īd  (aveva denunciato la corruzione della polizia locale) e che già “dice” molto dei protagonisti della “rivoluzione”: la polizia corrotta, i giovani, il web, la blogosfera, spazi e interstizi per la ri-costruzione della sfera pubblica democratica, nei luoghi – tanti e diffusi “globalmente” ad Est come ad Ovest  –in cui essa viene negata dai poteri autocratici. Tutti episodi dunque di un “viaggio letterario” apparentemente slegati perché multiformi e multivocali, ma legati dalla come “lotta” per il “pane, la libertà, la giustizia”. Il secondo episodio tratto dal “diario alessandrino” (in Egitto dove Solera vive), racconta dell’esperienza diretta della rivoluzione, quando, in preda al panico, minacciato da un gruppo di giovani nostalgici di Mubarak, Solera rinnega tre volte (come nell’episodio evangelico, rammenta) la propria identità, mentendo sulla propria nazionalità, sulla propria identità, sulla propria attività. È di scena la paura. Segue quindi il racconto libico, ambientato prevalentemente nelle prigioni, dove Solera incontra e ascolta gli ex lealisti di Gheddafi:  racconti di mercenari, ancora protagonisti di una Libia “in transizione”, in attesa di una Costituzione non più provvisoria, endemicamente in deficit di “sicurezza”. È la volta della Siria, raccontata dai campi profughi che la circondano (in Turchia, Iraq, Libano), dal fronte dei ribelli dell’esercito siriano di liberazione, e, poi, da Padre Dall’Oglio (tuttora disperso), che lavora per “unire l’opposizione siriana e partecipare al progetto costituzionale per una democrazia consensuale” (p. 350), strappando sia al “dittatore” Assad che ai terroristi, il controllo del paese.  La realpolitik internazionale ha evitato sinora un attacco esterno – scongiurando peraltro lo schema dell’intervento umanitario che tanta parte ha avuto sin qui nel delegittimare la pratica della esportazione della democrazia “sulla punta delle baionette” –  osteggiato principalmente da Russia e Cina (i mesi estivi appena trascorsi sono stati decisivi),  e distrutto le “armi chimiche” grazie ad un accordo della comunità internazionale, ma l’orizzonte della democrazia, al momento, sembra ancora lontano.
Entro questa complessa cornice dunque si colloca la Primavera araba (ed il suo effetto domino nell’intera regione medio-orientale e nord-africana), la madre di tutti gli eventi “rivoluzionari” in questa nostra epoca globale nata all’insegna del “post”: post-moderna, post-fordista, post-guerra fredda, post-coloniale, e, paradossalmente, post-democratica. Ma il riscatto mediterraneo, che ne è parte, è fatto anche di altre lotte e pratiche di resistenza per la dignità e la libertà, di protesta e “ri-occupazione” dello spazio pubblico, per reagire alle forme sempre più diffuse di “rimozione”, “ideologica” e materiale (insieme ai manifestanti che li occupano) degli spazi comuni, sull’onda lunga delle mobilitazioni, da Est (la rivoluzione arancione in Ucraina) ad Ovest (gli Indignados in Spagna, da Sud (la rivoluzione verde in Iran, la Grecia contro l’austerity neoliberale) a Nord (Occupy Wall Street negli Stati Uniti, Blockoccupy a Francoforte). E persino, in Israele, terra dell’“occupante”, dal 2010 nascono forme di occupazione contro la corruzione, il governo neoliberista dell’economia, la concentrazione della ricchezza in poche mani, per la giustizia sociale (pp. 236-49). Una reinvenzione della politica a partire da forme di “auto-organizzazione” e partecipazione per la produzione e difesa di “beni comuni”, per la ridefinizione dello spazio pubblico. Sembra aprirsi qui un paesaggio arendtiano della politica intesa come “natalità”, come libertà di “iniziare una nuova serie nel tempo”. Per questa via dunque passa la ricostruzione di forme di democrazia partecipativa, complementare e –  nel lungo periodo – alternativa alla democrazia rappresentativa, sempre più spesso sclerotizzata nel suo funzionamento, messa in crisi dalla tecnocrazia e dagli imperativi economici neoliberisti. Tuttavia, la “fiducia” nella capacità dei movimenti collettivi di rivitalizzare la democrazia non sempre è condivisa; sconta infatti una sorta di scetticismo sulle reali possibilità di costruire una domanda collettiva altrettanto inclusiva di quella emersa con la lotta di classe e i grandi partiti di massa. Quali che siano le “reali” possibilità di una nuova forma di “emancipazione”, nuovi soggetti politici possono agire in società più complesse, in cui il potere politico ed economico si fa transnazionale; ed a questo livello, transnazionale e translocale, le “reti” di movimento spostano il terreno di lotta.  
La reinvenzione della democrazia passa anche per la costruzione degli “utensili del riscatto” (p. 297); “breviari del combattente” vengono utilizzati da Anonymous ai movimenti di piazza Tahrīr, in Val di Susa e nei Balcani, nella lotta contro i “poteri egemonici”, politici, economici, culturali. Contaminazioni e punti in comune delle forme di lotta consistono nel principio della nonviolenza intesa non come “sottomissione passiva al sopruso (per esempio l’uso dei gas ormai sempre più diffuso tra le forze di polizia in tutto il Mediterraneo, dall’Egitto, alla Grecia, alla Val di Susa, alla Turchia), ma come forma energica di lotta e di gestione dei conflitti”; nel principio dell’autocontrollo (ordine, disciplina, sistematicità, puntualità); nella diffidenza verso ogni forma di personalismo tra i compagni di lotta; nell’uso di forme di linguaggio semplice, “trasmissibile e condivisibile”; nell’importanza del numero dal momento che “si può iniziare in pochi ma si deve finire in molti” (p. 308). In quest’ottica nelle pagine del resoconto delle lotte è possibile ritrovare esempi di una geografia della liberazione applicata “qui ed ora”.  È a Belgrado che ha sede CANVAS, il Centro per l’applicazione di strategie di azione non violente, dove si insegna a tener presente la visione che ispira la lotta, “per capire quanta strada ci sia ancora” (p. 313) e per non lasciare “che le nuove élites facciano ciò che vogliono quando cade il dittatore”. Ancora da Belgrado arriva il manuale, tradotto in arabo, approntato anche con l’obiettivo di “lavorare con la Siria”,  in cui si spiega “come rendere l’oppressione controproducente”, (p. 317). E ancora da Belgrado arriva il termine Laughtivism, utilizzato “per definire l’azione politica attraverso l’ilarità con un obiettivo chiaro: imbarazzare [i regimi]” (p. 318). Con Civitas Academy nella Striscia di Gaza lavorano invece diversi attivisti arabi per “insegnare la democrazia ai giovani della regione” (p. 319). In questa varietà di modi dunque, svolgono la loro funzione “maestri e mecenati della resistenza” (p. 317).
Nella pedagogia per la reinvenzione democratica sembra delinearsi una sorta di “microfisica dell’emancipazione”, a partire dalla dimensione locale per una riscrittura dei modelli di sviluppo. Strategie “lillupuziane” contro la logica applicata delle grandi opere sono in atto, ad esempio, in Val di Susa, dove si sperimenta una riappropriazione del sapere tecnico contro la tecnocrazia  neoliberista;  al Presidio Europa, il forum europeo “contro le grandi opere inutili e imposte” fanno riferimento molti attivisti (p. 218), non semplicemente per opporsi alla realizzazione di opere di “pubblica utilità” proprio nel cortile di casa  (sindrome  NIMBY, Not in My Backyard) ma con l’obiettivo più ampio di proporre un modello alternativo di sviluppo e di utilizzo del territorio.
Il “sogno” mediterraneo di libertà, dignità e giustizia, è resiliente: resiste e si riaffaccia all’orizzonte, anche quando, come in questo momento, “l’autunno” della controrivoluzione si è avvicendato alla primavera della rivoluzione; il “Rinascimento che verrà non è una chimera” (p. 357). Per questo Solera pensa ad una chiave di lettura unitaria che accomuni le espressioni della protesta sociale tra le due rive del Mediterraneo: “l’occupazione e la riappropriazione degli spazi pubblici, la creazione di strutture spontanee e volontarie di assistenza e sostegno alla popolazione, la diffidenza nei confronti dei meccanismi della rappresentanza istituzionale, la denuncia della collusione tra classe politica e gruppi di interesse economico, la lotta contro la corruzione e l’espropriazione delle risorse a vantaggio dei pochi, la richiesta di “pane, libertà e giustizia sociale” […] di beni comuni, democrazia e eguaglianza solidale, la mobilitazione attraverso la messa in rete, le relazioni interpersonali o i social media, la società civile quale guardiana dei principi costituzionali e delle responsabilità democratiche, la necessità di andare oltre le frontiere, di guardare oltre gli steccati nazionali o culturali, un forte senso della dignità e della pratica del rispetto nel rifiuto delle divisioni identitarie” (pp. 13-14). Da questo “decalogo”  occorre partire, secondo l’autore, per la costruzione di un neo-transnazionalismo politico e culturale “dal basso”, superando le retoriche della globalizzazione (dal cosmopolitismo delle élites globali, alla transnazionalizzazione neoliberista dell’economia). Attingendo alla capacità evocativa del termine ‘Rinascimento’ nell’immaginario collettivo, Solera si dice “certo” che “il Mediterraneo sarà sorgente di un rinnovato ottimismo;” ma ciò a patto di “non lasciare il Mediterraneo agli altri. Impossessiamocene, senza aver timore di combattere dove si combatte, di alzare la voce dove si protesta, e di deciderci dove si decide” (p. 374).       


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Zolo D. (), Terrorismo umanitario.